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Scriveva il filosofo Henry David Thoreau: «Il complimento più grande che mi è mai stato fatto fu quando uno mi chiese cosa ne pensassi, ed attese la mia risposta». Pareva una parola passata di moda, il «rispetto». A lungo relegata nel dimenticatoio, almeno nel discorso pubblico: un orpello che mal si adattava a tempi di comunicazione iper-semplificata e di tifoserie social. Che per loro natura premiano chi spara sentenze – magari scatenando orde di follower contro il “nemico” – e tendono a oscurare chi, per tornare a Thoreau, ti chiede che cosa pensi e si prende pure la briga di aspettare una risposta.

LA PAROLA

Ci voleva allora la Treccani, che qualche settimana fa ha scelto proprio «rispetto» come parola dell’anno, «per la sua estrema attualità e rilevanza sociale». E anche perché, fanno notare dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, è la mancanza di rispetto che sta «alla base della violenza esercitata quotidianamente nei confronti delle donne, delle minoranze, delle istituzioni, della natura e del mondo animale». E ci voleva, forse, Sergio Mattarella. Che nei quasi dieci anni al Quirinale ha fatto del rispetto la sua cifra politica. Del dettato della Costituzione, delle regole di convivenza con le altre istituzioni, dei “giocatori” di cui è arbitro. Anche di quelli che non sempre gli hanno riservato lo stesso trattamento.

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È stato il capo dello Stato, nel suo discorso di fine anno, a puntare un faro su quello che il dizionario italiano Treccani definisce come un «sentimento e atteggiamento di stima, attenzione, riguardo». «Rispetto verso gli altri», aveva ammonito Mattarella, «primo passo per una società più accogliente». Rispetto «della vita, della sicurezza di chi lavora», rispetto «della dignità di ogni persona» e «dei suoi diritti». Ed è stato ancora Mattarella a sorprendere, ieri, anche lo staff del Quirinale. Quando in occasione della prima “Giornata del rispetto”, nata per ricordare Willy Monteiro Duarte nel giorno del compleanno del giovane di Colleferro, pestato a morte a 21 anni, ha spiazzato tutti scegliendo a sorpresa di presentarsi in una scuola di Palermo. Non una qualunque, ma un istituto elementare i cui alunni (molti dei quali nati in Sicilia ma di origine africana) qualche mese fa erano stati apostrofati con frasi razziste durante una lettura in piazza.

E così eccolo, il presidente, che risponde alle domande dei bambini («da piccolo volevo fare il medico, non il calciatore perché non ero bravo», confessa, «ma poi ho studiato legge»). E che soprattutto torna, parlando a braccio, a elogiare ancora una volta i valori del dialogo e della solidarietà. «Siete una scuola che con la cultura, la musica, la lettura e altre iniziative di crescita culturale esprime i valori veri della convivenza nel nostro Paese e nel mondo», le sue parole a bambini e insegnanti. «Ed è una ricchezza crescere insieme, scambiarsi opinioni e abitudini, idee, ascoltare gli altri. Vivere insieme, dialogare, fa crescere». In altre parole: educarsi al rispetto. Un esempio, per Mattarella, di quanto «c’è di buono nel nostro Paese. Ed è quello – confessa il presidente – che mi conforta sempre», cancellando anche la «fatica» del suo ruolo: «Vedere le buone cose che vi sono in Italia».

Esempi buoni, insomma, come quello di Willy, «brutalmente assassinato nel tentativo di difendere un amico in difficoltà». È a lui che pensa Mattarella, quando parla del rispetto come di un «antidoto contro l’odio, la discriminazione, la violenza e la prepotenza che tendono, talvolta, a riproporsi come segno di affermazione, laddove corrispondono invece a manifestazione di fragilità e incertezze». Rispetto, avverte ancora il capo dello Stato, da intendere come «valore universale», e quindi «verso sé stessi», «verso gli altri», «verso il pianeta»: «Il primo passo per una società vivibile, che assume i criteri della solidarietà, della coesione sociale, della reciproca accoglienza, della sostenibilità». E rispetto, per Mattarella, è soprattutto «segno di maturità»: significa insomma «scegliere di godere della propria libertà appieno, in armonia con gli altri e con sé stessi». In altre parole: «Essere rispettosi», per il capo dello Stato, «è esercizio di libertà».

COMPETIZIONE

Chissà se il messaggio verrà recepito. E se «rispetto» sarà davvero la parola dell’anno, come – con un po’ di ottimismo – si è augurata Treccani. In politica e non solo. Interpellata sul punto durante la conferenza stampa di inizio anno, Giorgia Meloni l’ha definito un «diritto e dovere», una parola «bella e difficile». «Rispettare – sottolineò la premier – viene dal latino respicere, guardare in profondità. Non dimostri rispetto se non provi a capire. Ma non puoi farti rispettare se non sai chi sei».

Politica a parte, qualcosa eppur si muove: gli istituti demoscopici assicurano che la generazione Z, quella dei nati a cavallo del nuovo millennio, è almeno in apparenza la più attenta di sempre all’inclusione, alla diversità, all’ambiente. In una parola, al rispetto. Rifiutando una narrazione che finora puntava sulla competizione come arma vincente. Non è sempre così, e lo dice anche la scienza. In “Biologia della gentilezza”, un biologo e un’epidemiologa di Harvard, Daniel Lumera e Immaculata De Vivo, smentiscono l’adagio darwiniano secondo cui “sopravvive il più forte”. No: per i due studiosi, «vive meglio e più a lungo chi evita i conflitti, è premuroso con gli altri, aiuta e condivide». Una rivoluzione.

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