Riforma giustizia: una china pericolosa

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Temiamo che tutti stiano prendendo troppo alla leggera i problemi che sono connessi con la riforma del sistema giudiziario promossa dal ministro Nordio ed ora approvata alla Camera in prima lettura. Questa volta la questione non sta tanto nel contenuto della legge, quanto nello scontro istituzionale che finisce per innescare.

Diciamo subito che la previsione di due distinte carriere fra la magistratura giudicante e la magistratura inquirente non comporta di suo alcuno sconquasso. In altri sistemi democratici esiste questa distinzione in varie forme, così come nei sistemi autoritari invece tutto, inquirente e giudicante, è accentrato sotto il potere del governo. La riforma Nordio mantiene le guarentigie costituzionali per entrambe le categorie e se si ragiona, come propone l’ANM, temendo che i PM senza l’avvallo dei colleghi giudici possano finire nelle spire del governo di turno, si può obiettare che quello è un pericolo costante in tutte le relazioni di potere e non è eliminabile se non con la diffusione di una etica del ruolo che la categoria riesce ad imporre quando cessa di essere una corporazione con relativo sindacato.

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Il problema vero riguarda il mantenimento o meno della magistratura non come potere neutro, così come dovrebbe essere per la tradizione del costituzionalismo, ma come un potere in grado di mettersi in competizione con gli altri due poteri, il legislativo e l’esecutivo: proprio per questo volendo essere un potere del tutto “autonomo”. Questa è una deviazione a nostro modesto avviso molto rischiosa, ma è quanto sta avvenendo nel momento in cui la magistratura associata si propone di mettersi in contrapposizione col potere legislativo. Qui, sia detto chiaramente, non si tratta di negare ai magistrati, come ad ogni cittadino, la libertà di criticare la legislazione che il parlamento propone e di opporsi ad essa, solo che non può essere fatto nelle sedi dove esercitano la loro funzione istituzionale, rivestiti delle relative insegne. Questo è quanto avverrà se la critica al progetto Nordio si terrà nella sede dell’inaugurazione dell’anno giudiziario (peggio che peggio inalberando una costituzione che questo contrasto proprio non prevede).

Ci sono buone ragioni per criticare non tanto la divisione delle carriere, quanto i contorti meccanismi della loro gestione che vengono prospettati. Se l’autogoverno corporativo a cui si era ridotto il CSM, con tanto di istituzionalizzazione di correnti organizzate, non è un bel vedere, c’è da dubitare che mettere le stesse funzioni nelle mani di meccanismi senza razionalità interna come sarebbero i due CSM con membri estratti a sorte fra i magistrati sia una buona soluzione. Quanto meno perché nascerebbero gestioni ondivaghe, per non parlare delle tentazioni per qualche estratto di consolidare la “fortuna” della scelta con benemerenze da riscuotere poi una volta abbandonata la prestigiosa posizione. La stessa previsione di un organo di disciplina che si sottragga al principio del giudizio fra i pari come avviene ora col CSM (un principio, sia consentito dirlo sommessamente, che in genere è rigettato come medievale: non funziona più neppure nella giustizia del Vaticano) ha aspetti teoricamente condivisibili, ma porta con sé non pochi problemi pratici, perché si potrebbe passare in quella sede dalla tolleranza generalizzata verso i colleghi (esempi di carriere di magistrati che non hanno operato bene ce ne sono non pochi, a partire dal caso Tortora) ad una sorta di meccanismo punitivo a seconda delle inclinazioni chiamiamole culturali dei membri di quel collegio.

Tuttavia la battaglia non si farà, purtroppo, con un pacato e distaccato confronto di ragioni (l’immagine della giustizia bendata ha fatto il suo tempo), ma con scontro di interessi più o meno corporativi, con difese di posizioni acquisite e con tentativi di mettere in riga possibili competitori. Non ci si fermerà nelle aule parlamentari, sui media e nei talk show, dove questi argomenti si suppone facciano audience vuoi mettendo in scena il magistrato vendicatore della giustizia che non si riesce a fare, vuoi il magistrato o l’avvocato che denuncia una giustizia che viene fatta male e verso l’obiettivo sbagliato.

Ciò che dovrebbe preoccupare tutti coloro che hanno a cuore la stabilità del nostro sistema politico è ciò che succederà quando si arriverà inevitabilmente al referendum confermativo della riforma Nordio. Sappiamo che si tratta di un referendum su una legge costituzionale, dunque senza quorum e pertanto fortuito nei suoi esiti, perché gli astenuti, presumibilmente non pochi, lasceranno campo libero allo scontro fra le tifoserie. Infatti è molto improbabile che l’elettorato sia in grado di farsi un giudizio preciso di quanto c’è in campo, quando sarà sopraffatto dalle mitologie e demagogie delle varie parti in questione, sicché temiamo che una parte si farà attrarre nello scontro fra la diffidenza verso una magistratura non proprio sempre percepita come difesa della legge e la esaltazione del vendicatore universale contro la protervia dei potenti, secondo un mantra di cui è difficile negare il successo. Con una bella quota di elettori che si sentiranno estranei ad una questione che non vedranno come cosa loro.

Se questo accadrà, il risultato sarà, quale che esso sia, una delegittimazione generale del sistema da cui non si salveranno né la magistratura, né la classe politica. Ora davvero dei membri responsabili e consapevoli di come funzionano i sistemi politici possono guardare con sufficienza a questo rischio? Va bene che la storia non va più di moda se non è una favoletta geopolitica generalizzata, ma almeno le espressioni guida delle classi dirigenti a cui appartengono tanto i magistrati quanto i politici qualche consapevolezza in queste materie dovrebbero pur averla.





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