Dividendi inbound: foreign tax credit

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Dividendi inbound: il foreign tax credit spetta solo per Convenzione

 

di Paolo Parisi

Abstract

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

I dividendi inbound scontano due livelli impositivi, l’uno all’estero e l’altro in Italia essendo soggetti a ritenuta alla fonte a titolo sul “netto frontiera”, se riscossi tramite intermediari residenti, ovvero ad imposta sostitutiva sul provento lordo qualora incassati direttamente all’estero. La spettanza del del foreign tax credit sui dividendi di fonte estera percepiti da persone fisiche è prerogativa esclusiva delle Convenzioni contro la doppia imposizione.

 

Un tema molto dibattuto in materia di dividendi è spettanza del credito per le imposte assolte all’estero in via definitiva sui dividendi di fonte estera percepiti, al di fuori dell’attività d’impresa, da persone fisiche residenti in questa Rubrica abbiamo già scritto in merito (si veda “Double taxation dei dividendi inbound percepiti da persone fisiche non imprenditori” del 21 giugno 2024). L’origine del dibattito scaturisce dal fatto che, a livello domestico, al dividendo estero (tranne quelli provenienti da Paesi a fiscalità privilegiata) non concorrendo alla formazione della base imponibile Irpef non viene riconosciuto il foreign tax credit mentre la normativa pattizia contro la doppia imposizione (salva espressa non spettanza) ammette in detrazione dalle imposte (coperte dalla convenzione) dovute in Italia le imposte che hanno gravato sui redditi esteri.

Gli articoli 44 e 45 del TUIR stabiliscono che i dividendi di fonte estera percepiti da soggetti privati dal 2018 sono soggetti a ritenuta alla fonte del 26% sul “netto frontiera” (tramite intermediari residenti) a prescindere dalla qualificazione della partecipazione nell’entità di diritto estero che eroga il dividendo: per completezza si rammenta che gli utili e gli altri proventi di natura qualificata derivanti dalla partecipazione al capitale di società ed enti esteri di ogni tipo, formatisi con utili prodotti fino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2017 e deliberati dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2022, continuano ad essere assoggettati al regime previgente che prevedeva una tassazione ordinaria parziale del dividendo (40%, 49,72% e 58,14%).

In questo quadro normativo si inserisce l’articolo 165 del TUIR che nega la spettanza del foreign tax credit ai dividendi di fonte estera in quanto soggetti a ritenuta alla fonte o a imposta sostitutiva (ai sensi dell’art. 18 del TUIR) e determina un fenomeno di doppia imposizione (dividendo soggetto sia all’imposta estera sia a quella interna) che contrasta palesemente con i principi contenuti nelle Convenzioni internazionali.

L’Agenzia delle entrate, risposta del 21/04/2020, n. 111, ha ritenuto: “Nel caso in cui, invece, la materiale riscossione degli utili distribuiti dai soggetti non residenti non dovesse avvenire per il tramite di un intermediario residente che interviene nella riscossione del reddito in qualità di sostituto d’imposta, trova applicazione l’articolo 18 del Tuir, il quale dispone che tali redditi devono essere assoggettati in Italia ad un’imposizione sostitutiva da applicare all’utile distribuito dal soggetto non residente, che va considerato al lordo delle eventuali ritenute operate all’estero a titolo definitivo”. Nella denuncia 3 dicembre 2020 n. 15 l’A.I.D.C. precisa che l’interpretazione espressa dall’Amministrazione finanziaria dell’articolo 18 del TUIR presenta duplici profili di incompatibilità con l’ordinamento dell’Unione (cfr., illegittimità comunitaria del regime fiscale italiano sulla tassazione dei dividendi esteri): comporterebbe una restrizione dei movimenti di capitale in violazione dell’articolo 63 del TFUE perché imporrebbe, di fatto, alle persone fisiche private residenti in Italia di canalizzare l’incasso di dividendi di fonte estera per non subire una tassazione discriminatoria; integrerebbe anche una violazione dell’articolo 56 del TFUE sulla libertà di prestazione dei servizi (nel caso, dei servizi finanziari) perché tale discriminazione avrebbe anche l’effetto di indurre le persone fisiche residenti in Italia ad affidare l’amministrazione del proprio patrimonio mobiliare ad intermediari finanziari italiani anche quando le equivalenti prestazioni fossero rese da intermediari esteri in modo più efficiente o meno oneroso. L’Associazione richiama una pronuncia della giurisprudenza di merito (cfr. sentenza n. 1159/2023 della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Milano) che lucidamente stigmatizza l’effetto di doppia imposizione determinato dall’interpretazione della prassi amministrativa: “…laddove ci si trovi nel campo dei redditi prodotti all’estero, ovviamente in Stati con i quali sussista l’accordo sul divieto di doppia imposizione, l’assoggettamento di tali redditi ad una duplice diversa imposizione, derivante dall’applicazione di un imponibile ragguagliato al netto o al lordo frontiera, comporterebbe una ingiustificata duplicità di trattamento per i cittadini italiani, in netto contrasto con il principio costituzionale di cui all’art. 53 Costituzione, poiché a parità del netto ricevuto per la stessa tipologia di introiti, in conformità della norma dell’art. 18 TUIR (come modificato dalla Legge 27dicembre 2017 n. 205, in vigore dal primo gennaio 2018) sia che il soggetto lo abbia percepito in via diretta, sia per il tramite di un intermediario, si avrebbero due trattamenti fiscali differenti, al variare dell’imponibile, contrari quindi alla norma costituzionale”.

Per contrastare la doppia imposizione internazionale in presenza di una tassazione concorrente, il modello convenzionale Ocse prevede il metodo dell’esenzione (art. 23A) ovvero dell’imputazione o credito d’imposta (art. 23B): l’Italia, nelle convenzioni bilaterali stipulate, ha di regola adottato il metodo del foreign tax credit ove lo sgravio dalla doppia imposizione internazionale avviene tramite il computo, nella base imponibile italiana, del reddito già sottoposto ad imposizione nello Stato della fonte e nella contemporanea detrazione, dall’imposta italiana, delle imposte pagate a titolo definitivo all’estero.

Ora, le convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia prevedono in linea generale che l’Italia debba ammettere in detrazione dalle imposte (coperte dalla convenzione) dovute in Italia le imposte che hanno gravato sui redditi esteri, derivanti dall’esercizio della potestà impositiva dello Stato della fonte del reddito; al tempo stesso, tuttavia, emerge da tali pattuizioni come tale diritto di credito venga negato qualora il reddito estero sia assoggettato, in Italia, ad imposizione mediante “ritenuta a titolo d’imposta su richiesta del beneficiario”.

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In definitiva, sia la ritenuta a titolo d’imposta sia l’imposta sostitutiva costituiscono “strade” obbligate per il contribuente, cui non viene attribuita alcuna facoltà di scelta circa la modalità di tassazione del dividendo: tali regimi non vengono quindi applicati “su richiesta del beneficiario” e, di conseguenza, l’Italia dovrebbe accordare la detrazione delle imposte estere in virtù di quanto pattuito nelle convenzioni contro le doppie imposizioni.

Tenuto conto del rapporto di prevalenza delle norme internazionali pattizie sulla normativa interna, l’articolo 23, paragrafo 3, della Convenzione contro le doppie imposizioni Italia/Stati Uniti prevedendo che: “Tuttavia, nessuna deduzione sarà accordata ove l’elemento di reddito sia assoggettato in Italia ad imposizione mediante ritenuta a titolo di imposta su richiesta del beneficiario di detto reddito in base alla legislazione” esclude la spettanza della detrazione delle imposte pagate all’estero solo nel caso in cui l’elemento di reddito sia assoggettato in Italia a prelievo a titolo d’imposta su richiesta del beneficiario: in sintesi, il diritto al foreign tax credit spetta nelle ipotesi in cui l’assoggettamento a imposizione mediante imposta sostitutiva (di cui all’articolo 18, comma 1 del TUIR) non avvenga su richiesta del beneficiario, ma sia obbligato dalla norma domestica e il contribuente non possa accedere all’imposizione ordinaria.

L’Associazione Italiana Dottori Commercialisti, con la Norma di Comportamento 15 gennaio 2025 n. 227, AIDC si esprime in merito alla spettanza del credito per le imposte assolte all’estero in via definitiva sui dividendi di fonte estera percepiti da persone fisiche residenti nella particolare fattispecie in cui sia vigente una Convenzione contro le doppie imposizioni che non preveda espressamente la non spettanza del foreign tax credit.

La Norma precisa che un’interpretazione letterale del primo comma, ultimo periodo dell’articolo 18 e del primo comma dell’articolo 165 del TUIR dal quale consegua la preclusione all’utilizzo del meccanismo di scomputo delle imposte estere, tuttavia, comporterebbe l’esposizione a fenomeni di doppia imposizione sui soggetti residenti, che percepiscono utili da società (o enti) residenti all’estero. Come indicato dalla giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass. civ., Sez. V, Sent., n. 25698/2022 e la più recente Cass. civ., Sez. V, Sent., n. 10204/2024), con indirizzo ormai consolidato, occorre ristabilire il corretto rapporto gerarchico tra norme internazionali di fonte convenzionale e normativa interna. In tale prospettiva, la disposizione convenzionale che prevede che la detrazione sia esclusa solo nel caso in cui l’elemento di reddito sia assoggettato in Italia a prelievo a titolo d’imposta su richiesta del beneficiario, prevale sulle norme interne incompatibili, ovvero sul primo comma dei citati articoli 18 e 165. Da ciò consegue che il diritto allo scomputo delle imposte estere spetta nelle ipotesi in cui l’assoggettamento a imposizione mediante imposta sostitutiva (di cui all’articolo 18, comma 1 D.P.R. n. 917 del 1986) non avvenga su richiesta del beneficiario, ma sia obbligato dalla norma domestica e il contribuente non possa accedere all’imposizione ordinaria. Dal tenore letterale della disposizione pattizia, infatti, si desume che il credito relativo all’imposta corrisposta nella giurisdizione straniera si debba considerare detraibile quando l’assoggettamento a imposizione mediante ritenuta o mediante imposta sostitutiva (posto che la seconda assolve alla stessa funzione della prima) discenda da un obbligo di legge e non dall’esercizio di una facoltà del contribuente. L’interpretazione giurisprudenziale trova indiretta conferma nella diversa formulazione del testo di alcuni recenti accordi bilaterali contro le doppie imposizioni conclusi con altri Paesi, che prevedono che “nessuna detrazione sarà accordata ove l’elemento di reddito venga assoggettato in Italia ad imposizione mediante imposta sostitutiva o ritenuta a titolo di imposta, ovvero ad imposizione sostitutiva con la stessa aliquota della ritenuta a titolo di imposta, anche su richiesta del contribuente, ai sensi della legislazione italiana”. Come sottolineato dalla Corte di Cassazione, la locuzione “anche su richiesta del contribuente” indica che quando l’Italia ha inteso negare il credito d’imposta non solo nei casi in cui l’assoggettamento dell’elemento di reddito a imposta sostitutiva o a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta avvenga su richiesta del contribuente, ma anche nei casi in cui esso sia obbligatorio in base alla legge italiana, lo ha previsto espressamente. Pertanto, il diniego del credito d’imposta non può essere esteso alle fattispecie regolate dai trattati che non lo dispongono espressamente.

In conclusione, quindi, per l’Associazione ne consegue che la persona fisica residente che percepisce, al di fuori dell’attività d’impresa, dividendi assoggettati a tassazione all’estero, ha diritto al corrispondente foreign tax credit, con esclusione del solo caso in cui la vigente Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata con l’altra giurisdizione non ne precluda espressamente il riconoscimento, prevalendo in tal caso la norma pattizia su quella domestica.



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