Così l’Italia ha permesso a un aguzzino di tornare in Libia più forte di prima

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Il ministro della Giustizia Carlo Nordio.

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(nella foto cover, il generale Almasri)

E così il generale Almasri è tornato in Libia più forte di prima. E pare che dopo il momento trionfale del suo arrivo a Tripoli sia andato a festeggiare nelle prigioni da lui stesso controllate. Nello Scavo, inviato speciale di Avvenire, autore di approfondite e coraggiose inchieste sul traffico di migranti in Libia, il primo a dare la notizia dell’arresto di Almasri, spiega ciò che c’è da sapere su una figura nei cui confronti c’è un preciso mandato di cattura dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, commessi dal febbraio 2015 ad oggi. «Dietro l’arresto e il rilascio di Almasri c’è la repressione dell’Italia del fenomeno migratorio, ma non solo», spiega Scavo. Ecco cosa si nasconde dietro il rimpatrio del capo della polizia giudiziaria libica che si avvale delle forze del Rada arrestato in Italia dalla Digos e subito rilasciato per poi fare rientro in patria con un volo di stato italiano. Una pedina fondamentale per il controllo del traffico degli esseri umani che oggi contribuisce a garantire un minimo di stabilità e sicurezza alla Libia.

Dietro l’arresto e rilascio di Almasri si nasconde il ruolo dell’Italia nella repressione del fenomeno migratorio?

«Dietro l’arresto e il rilascio di Almasri c’è la politica di repressione dell’Italia nei confronti del fenomeno migratorio. Ma non è la sola ragione, perché molti sono gli interessi tra Italia e Libia, come le questioni petrolifere. Ci troviamo inoltre in uno scenario politico inedito: la caduta di Assad in Siria ha privato la Russia della libertà di movimento con le sue basi sul Mediterraneo lungo le coste siriane, intensificando così la presenza nella Cirenaica, nella Libia controllata dal generale Haftar, e dunque il governo libico attuale è ritenuto come l’unico interlocutore prima di una nuova indecifrabile e ingestibile crisi in Libia. Il generale Almasri con le sue forze, in particolare la polizia giudiziaria e le forze speciali Rada, garantisce oggi un minimo di sicurezza e stabilità al presidente libico attuale e alle istituzioni di Tripoli».

 

Almasri al suo arrivo a Tripoli a bordo di un aereo dei servizi segreti italiani.

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Almasri al suo arrivo a Tripoli a bordo di un aereo dei servizi segreti italiani.



Chi è il generale Najem Osema Habish Almasri?

«È un ufficiale libico di 47 anni cresciuto all’ombra di alcuni importanti signori della guerra libici che è riuscito via via ad estendere il suo potere, riuscendo a ottenere il controllo innanzitutto di due prigioni: quella di Mitiga, nell’area dell’aeroporto di Tripoli, e quella di Ain Zara. Quest’ultima è utilizzata prevalentemente per stipare migranti, profughi che lì vengono torturati, brutalizzati, venduti, immessi nel circuito del traffico degli esseri umani, stuprati e uccisi. Questo è ciò che dicono le carte della Corte penale internazionale».

Chi si trova nell’altro carcere?

«Nella prigione di Mitiga invece si trovano soprattutto detenuti considerati affiliati all’Isis o ad Al-Qaeda e un numero piuttosto alto di libici perché ritenuti dissidenti come giornalisti, attivisti, donne impegnate nel difesa dei diritti e lì detenute in condizioni di orrore indicibile come descritto dalle Nazioni Unite. Almasri è riuscito ad estendere il suo potere approfittando di alcuni vuoti, come l’uccisione del comandante Abdurahman al-Milad, noto come Bija e l’allontanamento dalla Libia del mandante stesso del suo omicidio, molto amico di Bija in passato. Ad arrestarlo è stato proprio Almasri, ma pochi giorni dopo è stato messo in un’areo privato e spedito in Turchia. Il vuoto che entrambi hanno lasciato viene occupato da Almasri che tra l’altro secondo le testimonianze di alcuni migranti è stato visto nei campi di prigionia per migranti e profughi a Zwara e Al Zwaia, non vicinissimo a Tripoli lungo la strada che collega Tripoli alla Tunisia».

C’è qualche analogia con il caso della giornalista Cecilia Sala? Almasri potrebbe essere rilasciato per prevenire l’arresto in Libia di italiani, da utilizzare come merce di scambio, come è stato fatto tra la Sala e l’ingegnere iraniano Abedini?

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«Il caso di Almasri non è paragonabile al caso di Cecilia Sala perché Almasri era destinatario di un mandato di cattura internazionale, mentre l’ingegnere iraniano arrestato in Italia non era destinatario di una misura di questo tipo.  Inoltre va detto che nel caso di Cecilia Sala dobbiamo considerare che c’è un risvolto politico e anche direi di responsabilità sociale perché l’Italia ha rapporti economici importanti con l’Iran. Ma l’Italia non è un Paese che addestra le forze di polizia iraniane, che finanzia le prigione iraniane e che legittima le autorità iraniane; al contrario di quello che avviene con la Libia cui l’Italia fornisce motovedette, addestra esponenti delle milizie libiche che poi aderiscono e si affiliano alla cosiddetta guardia costiera e ad altre forze di Tripoli. L’Italia è impegnata in Libia con una sua missione di formazione anche di quadri sanitari, finanzia insieme ad altri Paesi europei le sue politiche migratorie. Di conseguenza le violenze subite dai migranti beneficiano del sostegno politico economico e militare del nostro Paese. Evidentemente la responsabilità è maggiore e non si può paragonare al caso dell’Iran».

Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi.


Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi.

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È possibile davvero come sostiene il governo che si tratti di un errore procedurale?

«Che si tratti di un errore procedurale da un punto di vista tecnico è possibile, ma da un punto di vista delle conseguenze non era certo irrisolvibile. Questo l’ha spiegato la Corte penale internazionale. Tra l’altro negli ultimi documenti consultati della Questura di Torino si evince che tutta l’operazione è stata svolta correttamente dalla Polizia e tutte le informazioni erano note al ministero della Giustizia, subito informato dal momento dell’arresto. Via Arenula prima dell’arresto era stata informata anche dalla Corte penale internazionale.

E il ministro Guardasigilli Nordio?

«Lo stesso ministro con un comunicato stampa del 21 gennaio risponde di stare valutando, visto il corposo incartamento, la decisione da prendere, quindi non c’è il dubbio che il ministero non fosse stato informato. L’irritualità consisterebbe nella mancata comunicazione diretta tra la persona del ministro e la Corte penale internazionale. Va anche aggiunto che nel momento in cui la Corte di Appello di Roma ha chiesto al ministro di esprimersi, così come riportato nei documenti del Tribunale, non ha ottenuto nessuna risposta. Questo dimostra che c’è una precisa volontà politica, perché il ministro avrebbe potuto rispondere con un sì o con un no in entrambi i casi motivandolo. Invece ha preferito il silenzio e questo è servito al Tribunale per non convalidare l’arresto e mettere in libertà Almasri. Il quale, secondo il ministro Piantedosi che è intervenuto davanti al Parlamento, è stato rimpatriato con la massima urgenza a causa della sua gravissima pericolosità. Mi domando perché considerandolo così pericoloso non è stato consegnato alla Corte penale internazionale che avrebbe potuto fermare le azioni di Almasri. Oggi Almasri evidentemente grazie a queste défaillance italiane è tornate in Libia più forte di prima.

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