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Il peccato veniale di un banchiere è fuggire con la cassa, quello mortale è parlare». Enrico Cuccia, antico dominus di Mediobanca, poco avrebbe gradito la ridda di rumors di queste ore intorno alla sua «magnifica creatura». Che in verità tanto magnifica non è più.
Centro nevralgico del capitalismo italiano per quasi mezzo secolo, Mediobanca ha ormai un po’ sporcato il suo pedigree cimentandosi anche nella finanza di minor pregio, tra raccolta del piccolo risparmio e credito al consumo. Tuttavia, nel risiko bancario nazionale l’istituto di piazzetta Cuccia resta decisivo, soprattutto come primo azionista di Generali, la «cassaforte del risparmio degli italiani».
Gli attuali vertici dei due istituti guardano con favore alle alleanze internazionali. Esempio recentissimo è l’annuncio di un’intesa tra Generali e la francese Natixis, per la creazione di una piattaforma di gestione della ricchezza «di stazza globale».
Ma l’accordo coi francesi non trova sostegni nel parlamento italiano. Maggioranza e opposizioni, stavolta unite nella lotta, agitano il pericolo che il risparmio nazionale prenda la via dei mercati esteri. Il francese Philippe Donnet, attuale capo di Generali, l’ha definita una «bufala». Uscita improvvida, che ha ulteriormente acceso gli animi dei patrioti d’Italia.
Ecco allora che giunge la controffensiva tricolore. Mediobanca riceve dal Monte dei Paschi un’offerta pubblica di scambio, ossia una proposta di acquisizione basata su scambio di azioni anziché di contanti. Ispiratori della manovra sono gli attuali comproprietari dell’istituto senese: la famiglia Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone. Una diade capitalista che da anni punta a conquistare Mediobanca per governare Generali e realizzare così la grande ambizione di un terzo polo bancario-assicurativo italiano.
L’impresa del terzo polo, tuttavia, non è semplice. Le due famiglie miliardarie hanno finora sbattuto il muso contro un muro di ostacoli. Nell’ambiente, c’è chi sussurra che in fondo siano inadeguate. Qualcuno le invita a tornare ai vecchi affari, degli occhiali e del cemento, per lasciare l’alta finanza ai competenti.
Il clima politico, tuttavia, pare propizio per tentare ancora una volta la giocata del terzo polo. L’altro grande azionista di Montepaschi è infatti lo Stato, attraverso il Mef. Per Giorgetti e il governo, dare via libera al terzo grande gruppo bancario per fermare gli usurpatori esteri del risparmio nostrano sarebbe un gagliardetto nazionalista di non poco conto. Se l’operazione andasse in porto, le opposizioni dovrebbero riconoscere l’intelligenza patriottica dell’esecutivo. Meloni pregusta il boccone.
Gli esiti sono per adesso imprevedibili. Ma quel che conta, in questo risiko, è che resta in sospeso una domanda scientifica, prima ancora che politica: è proprio vero che affidare il controllo delle banche e delle assicurazioni italiane a famiglie di capitalisti nazionali garantisce che il risparmio sia reinvestito nel paese? Siamo sicuri cioè che banchieri privati nazionali favorirebbero il territorio nazionale?
Un tempo era così. L’avvento del banchiere «straniero» comportava drenaggio di risparmio dalle sedi originarie degli istituti verso centri d’affari lontani. Una cosa simile avvenne anche dentro i nostri confini. La vendita del Banco di Napoli al gruppo San Paolo trasferì i risparmi dei clienti meridionali verso le imprese del Nord.
Oggi però il mondo è cambiato. La centralizzazione dei capitali ha ormai avvinghiato la banca moderna al mercato finanziario, in un abbraccio che ne muta radicalmente la natura. Il banchiere contemporaneo ha certo ancora le sue aderenze territoriali, le sue contropartite con questo o quel centro di potere locale. Ma non può privilegiare il territorio d’origine. Il suo obiettivo vitale, infatti, è creare per i clienti un valore almeno pari a quello che offrono le altre attività sul mercato. E a tale scopo deve mobilitare il risparmio in ogni dove, purché siano garantiti i rendimenti.
Che si tratti dell’italianissimo Caltagirone o di chiunque altro, finché vige libera circolazione internazionale dei capitali la meccanica bancaria non muta.
Si dice con spregio che il banchiere è apolide. La realtà è che egli è mero servitore del capitale, l’apolide di ultima istanza.
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