Quello che il trumpismo può insegnare alla sinistra

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Serve una bussola per la sinistra occidentale, europea e italiana, un’ipotesi di ripartenza, una linfa politico-culturale capace di rivitalizzare tutto un mondo anti-trumpiano e anti-destra, in preda allo choc per le politiche appena avviate dal nuovo presidente americano e per le sconfitte che si prevedono prima in Germania nelle elezioni di febbraio e poi in Francia con Marine Le Pen. E dunque dove rivolgersi («Dio è morto, Marx pure e anche io non mi sento molto bene», dice il super-motto di Woody Allen che ben descrive l’attuale situazione del progressismo alle corde) e come rifarsi? Magari cominciando dai fondamentali, ossia ripensando al rapporto tra sinistra e popolo, tema disertato – per senso di colpa – da quel che resta, da questa parte dell’Atlantico e da quell’altra, degli intellettuali cosiddetti progressisti. 

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Per paradosso, può correre in aiuto, a questa parte politica in preda allo smarrimento e in deficit di capacità di lettura della realtà sociale, il libro che ha scritto tempo fa l’attuale vicepresidente di Trump, cioè D.J. Vance. S’intitola «Elegia americana», non ha nulla di contundente, di estremista o di sbracato – anzi è ben scritto un po’ come lo erano i testi della migliore intellighenzia di sinistra, quando esisteva – e racconta, senza fare tante teorie e tantomeno praticare comizi o strombazzare propaganda ma andando in profondità nell’esistenza degli americani alle prese con i bisogni quotidiani, come le idee di sinistra siano migrate a destra e come l’ostinazione dei liberal e dei radical a non voler vedere la necessità di protezione avvertita dai cittadini, i loro bisogni di ascolto, di rassicurazione, di sicurezza, di identità abbiano creato distacco tra le élites politiche del partito democratico statunitense, e lo stesso vale per i partiti socialdemocratici europei, e procurato la vittoria agli avversari. 

Non suoni blasfemo, per la sinistra: ma perché non ripartire da Vance, anche perché non c’è un nuovo Marx (e il «Che fare?» di Lenin è assolutamente inutilizzabile) e le teste pensanti delle università d’eccellenza in tutto l’Occidente soffrono di quel complesso dei migliori che le accomuna ai ceti politici di riferimento e che aliena l’intera compagnia dalla conoscenza del reale?  Se non si ha tempo e voglia di leggere «Elegia americana», basta vedere su Netflix il film che ne è stato tratto, diretto da Ron Howard, attore e regista che ha interpretato la parte dell’amico di Fonzie nella celebre serie e ha vinto il Premio Oscar per aver diretto il popolarissimo «A Beautiful Mind». Tra libro e film, si possono andare a rintracciare tutti i valori che il mondo progressista s’è fatto rubare dagli altri e magari imparare a riprenderseli senza spocchia. 

Se, per esempio, in Germania l’estrema destra di Adf si avvia a diventare il secondo partito, non sarà perché laggiù e soprattutto nella parte ex comunista siano diventati tutti nazisti. Sarà magari perché la deindustrializzazione – che è il tema forte di Vance – distrugge le famiglie, perché la questione degli immigrati viene avvertita fortemente a livello sociale ma scarsamente a livello politico e di governo, perché l’egemonia dei diritti delle minoranze viene fatta prevalere sui diritti a una vita migliore della maggioranza, perché rottamare la propria auto per comprarne una elettrica può essere una prospettiva stimolante per un professionista ma suona come una minaccia per chi guadagna poco. 

Vance attraverso la sua storia personale di un giovane povero (ma poi si farà) racconta tutte queste cose. Schlein – il cui Pd sta diventando come il grande filosofo Augusto del Noce immaginava che sarebbe diventato il Pci: un «partito radicale di massa» – dovrebbe sottolineare ad ogni pagina con un evidenziatore l’«Elegia americana». Vance potrebbe insegnare per esempio a evitare il fondamentalismo green, che forse è l’abc per recuperare il rapporto con i ceti meno abbienti. Oppure a operare uno scarto mentale e valoriale: non più l’ansia dell’inclusione, che esige la sottomissione della collettività a ogni sorta di rivendicazioni particolari, individuali e di gruppo in una rincorsa senza fine, ma il recupero di un concetto classico della sinistra storica, quella precedente alle battaglie di genere. E cioè lo sforzo per far funzionare l’uguaglianza che diventa nuove opportunità e di riattivare l’ascensore sociale che è bloccatissimo. Queste sono le chiavi che fanno vincere le destra, non conviene riprendersele e riattivarle? 

Vance va usato contro Vance, ecco. E come vademecum per riportare a sinistra quella base sociale, che è la più popolosa, degli ultimi e dei penultimi e a cui si aggiunge tutta quella gente che non ne può più del politicamente corretto e della globalizzazione come slogan. «Elegia americana» è infatti un reportage su come le zone interne dell’America bianca, Ohio e dintorni, che erano per il partito democratico, sono passate ai repubblicani. C’è una forte esigenza a sentirsi comunità e anche patria (altro che individualismo sfrenato!) nei cittadini che si percepiscono abbandonati nel mare magnum della modernità de-territorializzata. Prendere appunti su questo, perché gli elettori stanno dando sempre più spesso prova di preferire quelle forze che sui temi delle identità e delle appartenenze nazionali dimostrano di avere le idee chiare. E anche qui, per la sinistra, valorizzare l’idea di patria significherebbe soltanto tornare alle proprie radici. E lo spiega benissimo, partendo da Garibaldi e Mazzini per spingersi oltre, lo storico ed ex parlamentare dem Andrea Romano, nel suo ultimo libro «Patrioti di sinistra». 

E così, tra Italia ed Europa, la sponda democratica e socialdemocratica provi a guardarsi intorno senza paraocchi. Andando a pescare – in mancanza di intellettuali organici o quelli che ci sono hanno fallito in pieno – ovunque possano esistere ricette di riscossa. Perfino nelle pagine di uno dei teorici (e principale collaboratore) di Trump. Troverà spunti la sinistra per tornare, dal modello supponente ed elitista e dalle divagazioni senza costrutto su nuovi fascismi e saluti romani veri o presunti, al modello della concretezza poco altisonante ma piuttosto aderente alla vita per quella che è.

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