E’ vero che il test antidroga del nuovo Codice della Strada non � valido? Facciamo chiarezza dopo Cassazione

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L’utilizzo dei cosiddetti “drogometri”, dispositivi progettati per rilevare la presenza di sostanze stupefacenti, ha registrato una forte accelerazione negli ultimi mesi, ma non senza criticità. Finora, infatti, l’incriminazione poteva avvenire basandosi esclusivamente sulla positività al test, senza ulteriori verifiche sullo stato psicofisico del conducente, generando numerosi casi controversi, soprattutto a causa del rischio di falsi positivi.

La riforma Salvini e il problema dei falsi positivi

La riforma Salvini del 2024 sul reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, ha accentuato il ruolo dei test antidroga rendendo la semplice positività alla rilevazione di sostanze stupefacenti sufficiente per procedere con un’incriminazione penale. Questa modifica legislativa si pone come uno strumento più severo per contrastare la guida sotto l’effetto di droghe, ma presenta diverse problematiche, tra cui il rischio di falsi positivi. Questi si verificano quando i test, soprattutto quelli salivari o urinari, rilevano tracce di sostanze che non compromettono più l’efficienza psicofisica del conducente al momento del controllo.

I falsi positivi possono interessare, ad esempio, persone che assumono farmaci cannabinoidi per uso terapeutico. Alcuni di questi test rilevano tracce di sostanze che rimangono nell’organismo anche settimane dopo l’assunzione, senza che vi siano però effetti sulla capacità di guida. Ciò implica che soggetti perfettamente in grado di condurre un veicolo in sicurezza potrebbero essere erroneamente sanzionati o incriminati. Oltre ai farmaci, anche la soglia di sensibilità di alcuni strumenti di rilevazione può amplificare il problema. Test come quelli salivari risentono di un’ampia variabilità, fornendo risultati poco affidabili soprattutto in casi di assunzioni occasionali o minimali.

La posizione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2020/2025, ha messo in discussione la riforma Salvini, evidenziato l’importanza di adottare strumenti più affidabili nella verifica dello stato psicofisico dei conducenti fermati per un controllo. I giudici hanno sottolineato che l’uso esclusivo di test tradizionali, come quelli salivari o urinari, non è sufficiente per dimostrare in modo inequivocabile l’alterazione dovuta all’uso di sostanze stupefacenti. Di primaria importanza è il ricorso all’esame del sangue, che permette di accertare la recentissima assunzione di sostanze e il reale impatto sulla capacità di guida del soggetto, introducendo un approccio più rigoroso e scientifico nel contesto dei controlli stradali.

L’esame del sangue come test più attendibile

L’esame del sangue si configura come il metodo più affidabile per rilevare la recente assunzione di sostanze stupefacenti e, di conseguenza, l’alterazione psicofisica al momento del controllo. A differenza dei test salivari o urinari, l’esame del sangue consente di determinare con precisione non solo la presenza, ma anche la concentrazione attuale di droghe nel sistema circolatorio del conducente. Questo approccio permette di eliminare il margine di ambiguità legato alle tracce residue di sostanze non più attive, un problema particolarmente rilevante nei casi di controlli a distanza di giorni dall’assunzione.

La Corte di Cassazione ha indicato l’esame del sangue come uno strumento essenziale per dimostrare una connessione diretta tra uso di stupefacenti e incapacità di guida. Tale esame fornisce una misura oggettiva dello stato del conducente, dimostrando se la sostanza è stata assunta di recente e se è in grado di produrre effetti significativi sulla capacità di guidare in sicurezza.  Il procedimento richiede un prelievo venoso e una successiva analisi di laboratorio per rilevare composti attivi come THC, cocaina o altre droghe. L’utilizzo di questo metodo risulta particolarmente utile in casi di contestazioni riguardanti la validità del test preliminare, come disciplinato dal Codice della Strada.

L’importanza della valutazione globale del conducente

Oltre alla mera positività dei test antidroga, le forze di polizia devono considerare una serie di indicatori comportamentali che possano evidenziare lo stato del conducente al momento del controllo.

Tra questi, l’esame delle condizioni fisiche e psicologiche dell’individuo. Gli agenti sono chiamati a osservare attentamente diversi aspetti, come la coordinazione motoria, l’eloquio, il livello di attenzione e lo stato emozionale del soggetto. Una postura instabile, tempi di reazione rallentati o segni evidenti di agitazione o euforia possono suggerire uno stato di alterazione non compatibile con una guida sicura.

Oltre agli elementi comportamentali, la normativa prevede che vengano documentati altri segnali obiettivi, come la presenza di pupille dilatate, occhi arrossati o difficoltà nello svolgimento di test cognitivi preliminari. 

L’approccio multilivello richiesto dalla Polizia stradale, in linea con le indicazioni della Corte di Cassazione, garantisce un risultato più preciso ed equo. Un semplice test antidroga positivo non è sufficiente per accusare un automobilista: è necessaria una prova concreta che dimostri la reale incapacità di guidare. Questo orientamento più rigoroso tutela i diritti dei cittadini e garantisce un’applicazione più equilibrata della legge, riducendo il rischio di errori di valutazione e fornendo una verifica più robusta dell’alterazione psicofisica determinante ai fini sanzionatori.

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