Forse il lettore italiano rimarrà interdetto o sorpreso dagli scritti di Jean Améry che Bollati Boringhieri manda in libreria in questi giorni. La raccolta, dal titolo Il nuovo antisemitismo. Interventi 1969-1978 ha una sua coerenza e risponde a un criterio di radicalità al quale del resto Améry non è mai venuto meno. Ne aveva dato prova sia in Intellettuale ad Auschwitz, sia nella raccolta Rivolta e rassegnazione in cui rifletteva sul tema della vecchiaia, sia in Levar la mano su di sé, quando poneva il tema del suicidio.
Per prendere la misura delle riflessioni contenute in Il nuovo antisemitismo non è sbagliato ripartire dal modo e dai percorsi con cui Améry è arrivato al lettore italiano, ormai circa quaranta anni fa quando Bollati Boringhieri traduce una prima raccolta dei suoi scritti (usciti in edizione tedesca nel 1966). La raccolta si intitola Intellettuale ad Auschwitz ed è indubbio che quella scelta editoriale nasca come ultima eredità della riflessione di Primo Levi. È proprio Primo Levi, infatti, che nel capitolo VI di I sommersi e i salvati fa per primo il suo nome, fino ad allora sconosciuto.
Il lettore italiano probabilmente vi arriva anche per voyeurismo (in quelle pagine Levi parla del suicidio di Jean Améry come di una scelta tragica) e forse si domanda se non vi sia una contraddizione di fondo: Levi scrive del suicidio di Améry con lucidità e pacatezza e il lettore italiano legge le sue parole solo dopo aver appreso che lui stesso ha compiuto a sua volta il gesto estremo. In sostanza, presume che in quelle pagine si trovino le motivazioni di una morte, ma si chiede anche che cosa gli sia sfuggito. Che cosa si celava sotto a quella lucidità di riflessione? La scena dell’11 aprile 1987 (il giorno in cui Levi compie il suo gesto estremo) viene percepita non solo come «inaspettata», ma, soprattutto, come «contraddittoria».
Occorre tuttavia leggere le pagine di quel libro con attenzione. Levi vi esprime un sostanziale accordo con le osservazioni e le riflessioni di Améry sulla sua solitudine, la frustrazione dell’intellettuale, il senso di isolamento del «laico», cioè di colui che non ha apparati ideologici e sistemi di fede o di credenza politica in grado di tutelarlo e di proteggerlo, che siano in grado di dare garanzia di futuro e protezione a fronte dei rovesci del presente.
Il tema della «ragione radicale» innerva I sommersi e i salvati ed è su questo che avviene l’incontro e il confronto a distanza tra Levi e Améry. La questione della morte libera richiede tanto una rispettosa distanza sul piano delle scelte individuali quanto una considerazione sui temi di un confronto che risulterebbe alla fine solo morbosamente voyeuristico se ridotto o risolto unicamente in riferimento a quell’atto.
Levi e Améry sono divisi da molti aspetti e da molti tratti: dalla categoria di intellettuale che assumono, dal tema del risentimento o del “rendere il colpo”, della violenza subita, dalla dissoluzione di una qualsiasi Heimat, condizione che fa di Améry un apolide a differenza di Primo Levi, che invece riscopre un’idea propria di Piemonte.
E tuttavia il tema della radicalità del pensiero è alla fine il filo su cui conviene riflettere, probabilmente quello più tenace. Profilo che se non li unisce, certo ne rende convergenti le modalità riflessive.
È proprio questa piattaforma – la radicalità di pensiero – a essere la macchina generativa degli scritti che segnano la stagione ultima della sua riflessione in vita e che ora arriva in libreria.
Il nuovo antisemitismo. Interventi 1969-1978 è una raccolta di scritti pubblicata lo scorso anno in Germania e prontamente – e opportunamente, aggiungo – proposta in Italia da Bollati Boringhieri. Il tema, come sottolinea Irene Heidelberger-Leonard nella presentazione che accompagna il volume, desta “gravi preoccupazioni, che oggi (a quasi cinquant’anni di distanza) sono divenute ancora più gravi senza aver perso nulla della loro rilevanza”. Il tema per Améry non è se ciò che sta avvenendo sia la riproposizione o la rinascita dell’antisemitismo che abbiamo conosciuto nel Novecento, ma se nella sua nuova collocazione politica – non solo nell’area delle destre radicali «nostalgiche», ma anche nelle nuove sinistre –, non contenga anche una nuova versione culturale tale per cui, appunto quel profilo che aveva caratterizzato le culture antifasciste non sia di per sé sufficiente per rispondervi.
È un tema, quello dell’antisemitismo, che è stato ed è al centro della riflessione pubblica. Proponendo ipotesi diverse e contrastanti. Da una parte Gadi Luzzatto Voghera che con il suo Sugli ebrei, risponde che più che in un’identità unica e compatta è necessario declinare gli ebraismi nella modernità, attagliandoli al contesto storico che ne ha partorito ciascuna declinazione. Dall’altra Valentina Pisanty che nel suo Antisemita. Una parola in ostaggio sollecita una riflessione sull’uso distorto del termine antisemita segnato dal diffondersi della violenza e delle parole d’odio contro il popolo ebraico. Parola, ricorda Pisanty, che dietro ha una storia secolare che non si è interrotta con l’Olocausto, e che negli ultimi decenni ha prevalentemente assunto una funzione sanzionatoria che colpisce coloro che hanno come tema la critica alle politiche dello Stato di Israele. Una parola usata per censurare e non a far crescere una cultura della convivenza. Non si tratta di rimuoverla, ma di tornare a collocarla nella sua funzione, propone Pisanty.
Améry segue un diverso percorso. Proprio perché collocate non in questo nostro tempo, ma circa mezzo secolo fa, la riflessione sull’antisemitismo nel tempo presente apre un diverso fronte di questioni e contemporaneamente chiede che si prenda in carica un profilo lungo della contemporaneità, che non è iniziato il 7 ottobre 2023, o circa dieci anni fa quando, come ricorda Pisanty, si codificano le linee guida che IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance) vara le linee guida intorno ai significati della parola.
Per comprendere il profilo di riflessione generale conviene prendere le mosse dal testo che chiude la raccolta di Améry.
Nell’agosto 1977 Améry pubblica su “Die Zeit” un testo sul rapporto tra Israele e le diaspore ebraiche. Il contesto politico è a una svolta. Nel maggio precedente, infatti, la destra israeliana per la prima volta aveva ottenuto la maggioranza alle elezioni. Menachem Begin, esponente storico dell’ala sionista che ha come punto di riferimento Zeev Jabotinsky, viene eletto a capo del governo. Ancora non è chiara la dimensione di quella che sarà una svolta politica che rovescerà i rapporti di forza del sistema politico e parlamentare israeliano. Il partito laburista, la struttura politica che storicamente aveva espresso la leadership nel paese, a partire dalla metà degli anni ’30, che aveva guidato il processo di indipendenza e costruito il welfare israeliano, è ora diventato per la prima volta minoranza. Quella svolta ha un carattere strutturale. Segna irreversibilmente un «prima» e un «dopo».
In questo contesto Améry scrive un testo dal titolo Grenzen der Solidarität (incluso in Il nuovo antisemitismo con il titolo I confini della solidarietà, anche se forse sarebbe stato più tagliente usare anziché «confini» la parola «limiti») in cui svolge una riflessione senza sconti su quello che è per lui in questione.
Per lui la richiesta di solidarietà da parte di Israele rispetto ai suoi nemici non può essere conseguenza del richiamo all’antisemitismo ma deve fare i conti e prendere in carico, preliminarmente, la critica a una cultura politica, e il rifiuto degli atti che da quella cultura politica discendono e dipendono: ovvero il rifiuto di una qualsiasi ipotesi non solo di coabitazione ma di costruzione di politiche di collaborazione. In breve, il passato non può essere proposto come garanzia di futuro. La garanzia è rappresentata dal ricordo della “missione umana incarnata dagli ebrei emancipati e l’altrettanto diritto che gli ebrei hanno, in quanto popolo libero, di restare sul loro territorio, dato che fino ad oggi l’ospitalità dei vari «popoli ospitanti» continua ad essere, nella migliore delle ipotesi, precaria ovunque”.
Poche righe prima, per non dare adito a ambiguità o a incomprensioni, aveva scritto della necessità di condannare gli abusi di polizia cui erano stati sottoposti i palestinesi nei territori occupati dal giugno 1967, denunciando ciò che intravedeva essere una possibile metamorfosi della società israeliana, culturalmente fondata da un’impronta di laicità, ma ora a rischio di trasformazione radicale col pericolo che “le leggi rabbiniche diventino la base di una comunità sociale”.
Questa traiettoria coabitava con un’altra preoccupazione, per la quale Améry si sentiva fortemente impegnato in una battaglia, nella quale si sentiva isolato, a partire dalla fine degli anni ‘60: tenere fermo il punto sui limiti della solidarietà senza lasciare tracce di ambiguità e non detti. Il tema era la sensazione che all’indomani della Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967) stesse correndo nel linguaggio pubblico in Europa, nei paesi del Terzo Mondo e nei paesi arabi, una nuova forma di antisemitismo.
La convinzione di Améry è che questo nuovo antisemitismo si nutrisse delle immagini che avevano avuto cittadinanza politica e culturale nei fascismi europei, ma contemporaneamente anche nel linguaggio anticapitalista e antiborghese del ‘900, e che proprio in virtù di questi due tratti (antiborghesia e anticapitalismo) stesse facilmente e diffusamente espandendosi nell’immaginario sociale e politico delle sinistre (quelle tradizionali e ancor più quelle nuove) che stavano emergendo sull’ondata del movimento del ’68. Su questo tema molti anni fa Gadi Luzzatto Voghera aveva proposto di riflettere in un libretto dal titolo Antisemitismo di sinistra che non sarebbe sbagliato riprendere in mano (per lo meno per capire se la situazione sia peggiorata, stabile oppure migliorata).
È un tema su cui Améry invita a riflettere non in astratto, ma molto direttamente, ancora poco prima della morte (è il testo che apre la raccolta dal titolo La mia ebraicità) e che si presenta come percorso tematico ricorrente in tutta la raccolta.
Lo si vede chiaramente nella sua riflessione del 1969, quando affronta quello che lui chiama «antisemitismo rispettabile». Nel linguaggio essenzialista di chi critica la realtà dell’occupazione militare israeliana nei territori della Cisgiordania come «rivelazione dell’essenza vera dell’ebraismo», Améry percepisce un antisionismo che si carica dell’immaginario antisemita.
In un secondo scritto dal titolo La sinistra e il «sionismo» [sempre del 1969] – per molti aspetti complementare al primo – Améry sottolinea come nel linguaggio della sinistra si affaccino di nuovo il lessico e l’immaginario degli ebrei intesi come “potere mondiale”, riportando in superficie lemmi e immagini che erano propri della propaganda nazista, ai quali si accompagna il ritorno dell’accusa di deicidio, propria dell’antigiudaismo classico, che trova “nell’antisionismo dei giovani della sinistra non solo uno sbocco ben funzionante, ma anche un alibi”.
In un testo del 1973 dal titolo Ebrei, sinistra, ebrei di sinistra Améry legge lo stesso fenomeno anche in relazione all’«orientalismo». La parola ancora non c’è – Edward Said la conierà nel 1978, appunto nel suo Orientalismo –, ma c’è l’intuizione di una mentalità, di un dispositivo retorico, culturale e mentale (su cui sarebbe opportuno richiamare oggi nuovamente l’attenzione), che si sostiene su convinzioni che innervano chiaramente la retorica contemporanea: l’atto terroristico come replica all’ingiustizia; il fatto che le responsabilità siano individuate da una sola parte in forza della parola «vittima», assunta come essenza priva di tempo dell’identità culturale di un attore; l’immagine di purezza e innocenza del Terzo Mondo e della matrice rivoluzionaria e emancipativa dell’insorgenza fondamentalista.
L’effetto di tutto ciò per Améry si configura in un nuovo antisemitismo, che descrive in due testi del 1976 (inclusi in Il nuovo antisemitismo con il titolo rispettivamente: Il nuovo antisemitismo e L’antisemitismo rispettabile]. Améry sottolinea come questo sentimento si costruisca avendo come prima preoccupazione quella di non qualificarsi come tale, per proporsi invece sotto il lemma di “antisionismo”, benché sia costruito sulla rivitalizzazione delle parole, delle immagini, delle metafore e dei simboli propri dell’odio secolare dell’antigiudaismo.
Processo che avviene nel contesto di una riflessione più estesa, che chiama in causa le modalità di formazione di un pensiero convenzionale, che prende vita nella retorica del discorso di protesta e di rivolta.
Un tratto è bene osservare, che non si limita a quel tempo. A inizio anni ’90 questa stessa preoccupazione sulla retorica terzomondista, per esempio, la riproporrà Hans Magnus Enzensberger nel suo La grande migrazione, un quaderno di note apparentemente marginali ma che aveva il merito di leggere i sentimenti ambigui dell’europeismo e dell’antinazionalismo negli anni immediatamente successivi al crollo del Muro di Berlino.
Di qui deriva un ulteriore passaggio, ovvero la necessità di avere uno sguardo complesso, non semplicistico, sul sionismo, che va interpretato come movimento composto di molte anime e caratterizzato da progetti diversi oltre che da conflitti interni. Da una parte Améry invita a non assumere il sionismo come un monolite, come si fa per tutti i movimenti di liberazione nazionale; dall’altra punta l’attenzione verso i momenti di divisione interna del movimento, nei quali erano sorte anche ipotesi di convivenza in Palestina, che tuttavia nel mondo arabo nessuno ha mai raccolto, né usato per provare ad avanzare un’ipotesi diversa da quella dell’espulsione.
Vi è sempre stata nel mondo arabo la convinzione che la presenza ebraica fosse un’impurità da cui liberarsi. Ma la storia è fatta di sfide che hanno al centro la categoria di meticciato, come scrivono François Laplantine e Alexis Nouss, in Il pensiero meticcio, ma anche come molto tempo fa ci ha invitato a riflettere James Clifford con il suo I frutti puri impazziscono. Una sollecitazione, quella di Clifford che si proponeva come opposta alla categoria “omogeneo/eterogeneo” e in cui ciò da cui bisogna uscire è una cultura fondata sulla salvaguardia della propria purezza.
Condizione culturale molto estesa e trasversale a molte convinzioni politiche, pratiche religiose, nonché alle nuove forme di nazionalismo (tanto nel mondo occidentale, come in tutte le realtà politiche del mondo “Brics”) che esprimono il volto del nostro tempo presente.
Un tempo dove nessuno pronuncia la parola “razza” ma dove molti la pensano, perché qualsiasi concetto utilizzino – etnia, nazione, comunità … – allude a una salvezza di sé che è affidata alla «non contaminazione», comunque alla «separazione».
Vale in molti luoghi diversi tra loro. Per esempio, a Washington, Pechino, Mosca, Istanbul, Nuova Dehli, Teheran, Gerusalemme, Ramallah. Gaza non è esente.
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