La morte di Bruno Cecchetti. Un omicidio di Stato?

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16 marzo 1977, poco prima di mezzanotte.


Il buio su Torino, quel giorno, è già calato da almeno cinque ore. È un mercoledì della fine di un inverno che non ha nessuna intenzione di accogliere la primavera e la colonnina di mercurio segna tre gradi. L’usuale, retorica, banale rappresentazione dell’ex capitale del Regno, vorrebbe che si descrivesse un ambiente in cui il tessuto urbano e sociale, a quell’ora, ha preso le sembianze della desertica desolazione.

I locali chiusi, le insegne spente, i lunghi corsi silenziosi, senza auto, con i semafori lampeggianti a cui non è rimasto nulla da segnalare. La consueta città industriale grigia, laboriosa, fredda, dove sono tutti a letto con le televisioni spente dopo la fine della programmazione, in attesa di timbrare il cartellino la mattina seguente. O che, al massimo, la notte in fabbrica la stanno facendo proprio in quel momento.

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In corso Sicilia, invece, il diciannovenne Bruno Cecchetti sta involontariamente sfatando una serie di luoghi comuni, rimanendo fuori fino a tardi (e a metà settimana) presso il locale imbarcadero in compagnia dell’amico Gianfranco Zoja. I due hanno passato una bella serata e, intorno a mezzanotte, si sono spostati per prendere un gelato da Fiorio in via Po.

Bruno, che è iscritto al primo anno del Politecnico, il giorno dopo deve alzarsi per studiare e quindi, verso l’1, sale sulla sua 127. Abita a circa 15 minuti di macchina da lì, in via Moretta 6. Come d’abitudine, arrivato all’angolo tra corso Vittorio Emanuele II e corso Ferrucci, prende il controviale di quest’ultimo girando a sinistra, contromano, in modo da non dover circumnavigare l’enorme piazza Adriano. Lo fa tutte le volte, soprattutto di sera tardi, quando nella Torino operaia non c’è nessuno in giro. Arriva all’altezza del 79 di corso Ferrucci, a casa sua mancano esattamente 140 metri. È questo il momento in cui a Torino non è più semplicemente buio: sono scese le tenebre.

Il bagliore che squarcia quell’oscurità arriva dalla luce della sirena di un’ambulanza. Si trova in corso Ferrucci 79 e ha appena caricato Bruno Cecchetti, in pericolo di vita dopo essere stato colpito da quattro proiettili di mitra alla testa e alla schiena. Il periodo, in città come nel resto d’Italia, è di grande tensione. Le armi, soprattutto quelle da fuoco, girano come mai prima, la criminalità organizzata è sbarcata anche al nord e il numero di cittadini comuni coinvolti in fatti di delinquenza aumentano giorno dopo giorno.

In aggiunta a tutto questo, poi, c’è il terrorismo e la prima ricostruzione dell’avvenuto sembra andare in questa direzione. Gli uomini sui torrioni di guardia del carcere de Le Nuove, a un isolato di distanza dal luogo dell’accaduto, vedono una 127 di colore chiaro, a fari spenti, fare il giro intorno alla struttura per 5 o 6 volte. Pensando a un attentato contattano i Carabinieri e sul posto giunge una volante con a bordo il vicebrigadiere Giorgio Vinardi e il suo autista Gino Cognata. I militi individuano l’auto incriminata sul controviale di corso Ferrucci che procede lentamente nel senso sbagliato di marcia. Gli si parano davanti, la bloccano e Vinardi scende per effettuare un controllo ma, non appena si avvicina all’abitacolo, vede l’occupante dell’auto (Cecchetti) tirare fuori una pistola dal portaoggetti. La reazione è fulminea e una raffica dell’M12 in dotazione al gendarme attinge il giovane che, nonostante sia gravemente ferito, tenta di fuggire aprendo la portiera e stramazzando al suolo. Lo studente viene portato prima al Maria Vittoria e poi alle Molinette dove muore nel pomeriggio del 17 marzo.

La versione ufficiale inizia a scricchiolare già a poche ore dalla tragedia e anche La Stampa, normalmente cauta se non apertamente schierata con le forze dell’ordine, inizia una puntigliosa e barricadera ricerca della verità. Intanto, nessuna guardia penitenziaria conferma di aver fatto la segnalazione e le testimonianze di barellieri, fotografi e abitanti della zona riferiscono che l’auto non è stata fermata mentre era in moto ma che era parcheggiata e coi fari accesi.

Uno dei soccorritori (che si scopre essere stati chiamati almeno 15 minuti dopo gli spari) racconta di avere trovato la vittima coi pantaloni abbassati all’interno dell’auto, il che però, contrasterebbe sia con la tentata presunta fuga sia con una grossa scia di sangue trovata sull’asfalto circostante, come se il cadavere, per qualche motivo, fosse stato trascinato. Rimangono poi senza risposta molte domande. Perché Cecchetti era fermo in macchina a due passi da casa? Se era in mutande, forse, era in compagnia di una donna e allora perché questa non è stata fermata? Una volta che lo hanno trovato in possesso di quella pistola, perché non gli hanno perquisito l’alloggio? Cosa stava facendo in quel momento di così particolare da dover reagire brandendo una rivoltella a un normale controllo?


Oltre a queste incongruenze, è la figura di Cecchetti a non sembrare quella di un pericoloso malvivente. La madre e gli amici lo descrivono come una persona che non si è mai interessata alla politica, che studiava con impegno pensando solo alla laurea e contrario a ogni estremismo. Era, tra l’altro, anche amico personale del brigadiere Ciotta, ucciso da Prima Linea solo quattro giorni prima. Nonostante fosse alto 1,90m viene tratteggiato come timido, impacciato, tutt’altro che deciso o avventuroso. Portava gli occhiali ma non quando guidava, tenendoli nel cruscotto. Quando lo ritrovano morto li ha addosso e la custodia per terra nell’abitacolo. Il vicebrigadiere ha scambiato, nella penombra, degli occhiali per una 7,65?

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La sua vita viene scandagliata in profondità e non si riesce a trovare il ben che minimo collegamento con ambienti criminali e, soprattutto, tutti, quasi come fossero in coro, ripetono la stessa cosa: Bruno era contrario alle armi, lo repellevano, anche solo per difendersi.

La pistola, che secondo gli avvocati di parte civile sarebbe stata fatta comparire artificiosamente sulla scena del crimine, è l’elemento più controverso di questa storia. Viene repertata una Astra 7,65 di fabbricazione tedesca con la canna modificata per sparare cartucce calibro 9. Sopra non vengono trovate impronte o macchie di sangue e sono gli stessi inquirenti ad ammettere che, prima di essere consegnata al magistrato, è stata ripulita in tutti i suoi pezzi sia internamente che esternamente. La perizia balistica, inoltre, stabilisce che la stessa si era inceppata poiché al suo interno erano state alloggiate otto pallottole che mai avrebbero potuto uscire correttamente dalla canna: si scopre che sono provenienti dallo stesso lotto di quelle presenti nel mitra di Vinardi. Su questo particolare i misteri si moltiplicano. Il caricatore dell’M12 viene depositato ben 15 giorni dopo l’omicidio e, inizialmente, si pensava che avesse una capienza di 40 proiettili. Quello in mano dei giudici ne contiene 28 che, con i 4 letali a Cecchetti e gli 8 trovati nell’Astra farebbero tornare i conti. A questa contestazione, l’Arma risponde che quelli in loro dotazione, da qualche tempo, alloggiano 30 colpi. Se però al ragazzo ne sono stati esplosi 4 e ne rimangono 28 è la matematica a smontare questo assunto.

Il caso, visto il periodo, si tinge inevitabilmente di politica. Da un lato l’estrema sinistra (con Lotta Continua in testa) e il Partito Radicale che “adottano” il “compagno Cecchetti” dall’altra Vinardi che, per sua stessa ammissione, dichiara di essere nazifascista e di considerare il mitra “il suo strumento di lavoro”. Grazie alla pressione mediatica viene evitata l’archiviazione e si va a processo nel 1980.


Alla fine delle udienze, la parte civile, dopo 7 ore di arringa, richiede la condanna del vicebrigadiere per omicidio colposo. Definisce Bruno “vittima innocente del terrorismo” e propone un risarcimento di 50 milioni di lire da destinare a una borsa di studio. Per il PM, invece, la verità è quella del primo rapporto dei Carabinieri e tutti gli elementi raccolti sarebbero frutto di “una serie di incredibili equivoci”.


Il 27 maggio 1980 Giorgio Vinardi viene assolto: ha agito in stato di legittima difesa. Il mese dopo le motivazioni della sentenza contribuiranno ancora di più a lasciare parenti, amici e la città con l’amaro in bocca. L’argomento del caricatore del mitra viene definito (di nuovo) “un equivoco” che “va abbandonato perché inutile”.

I proiettili trovati nella pistola “si possono facilmente trovare sul mercato clandestino ed è soltanto una coincidenza, che siano simili a quelli del mitra di Vinardi”. Ancora sulla rivoltella: “Se si fosse voluto fare una macchinazione si sarebbero lasciate le impronte di Cecchetti. L’arma fu strappata alle mani del ferito che si agitava ancora. Inoltre, era assurdo dire che Cecchetti impugnava l’Astra, con il rischio di farsi smentire da lui se fosse sopravvissuto”. L’ora del delitto viene spostata avanti di 20 minuti e la mancata perquisizione a casa Cecchetti viene definita “una superficialità”.

La Stampa chioserà: “Alla motivazione della sentenza, concludendo, si può fare un solo commento: se doveva sgombrare il campo dai «sospetti, dagli equivoci, dalle speculazioni e menzogne» non c’è affatto riuscita”.

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Difficile, onestamente, dargli torto. 

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