Ruth Milgram, una vita spezzata dal nazismo e ricostruita in America: “A 93 anni mi è stata restituita la mia patria”

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Ruth Milgram, 94 anni, sopravvissuta alle persecuzioni naziste, racconta il suo viaggio dall’inferno della Germania hitleriana alla rinascita negli Stati Uniti: “A 93 anni mi è stata restituita la mia patria”

(Foto SIR)

(da New York) “Nel mio primo giorno di scuola, sulle spalle reggevo una borsa con i libri, quando una camicia nera, con un randello, cominciò a colpirmi senza ragione. Erano ovunque. Avevo sette anni e ancora oggi, di notte, mi sveglio ricordando quella scena”. Ruth Milgram, 94 anni, ebrea tedesca, in quel primo giorno di scuola non ricevette solo bastonate, ma vide anche la sua maestra arrestata e fucilata nel cortile. Oggi Ruth vive in una casa di riposo per anziani, a New Providence in New Jersey, a circa un’ora da New York, e alla vigilia del giorno della memoria ha voluto condividere la sua storia con Agensir “perché non si dimentichi e perché i sopravvissuti siamo ormai davvero pochi”. Nata nel 1930 ad Heidelberg, in Germania, sede di una delle università più prestigiose del Paese che aveva vantato tra i suoi docenti il filosofo Friedrich Hegel, il sociologo Max Weber, lo scienziato Dmitri Mendeleev e la filosofa politica Hannah Arendt, anche Ruth ha respirato della genialità, ma anche delle persecuzioni riservate agli accademici: il padre, ebreo di origini polacche, aveva insegnato fisica nell’ateneo, ma nel 1935 la polizia tedesca, che lo stimava anche per il suo carattere gioviale e accogliente, gli aveva consigliato di lasciare il Paese.

I Milgram vivevano a Mannheim nel 1933, quando ricevettero a casa la prima visita della polizia nazista. Nella casetta della posta del loro palazzo era stata trovata una cartolina con epiteti particolarmente offensivi verso Adolf Hitler e i primi a essere accusati per vilipendio furono proprio i suoi genitori.

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“Vennero prelevati da casa alle otto del mattino e portati in una caserma, dove gli fecero ricopiare centinaia di volte la cartolina, prima di ammettere che la loro calligrafia era totalmente diversa dall’autore. Rimasero rinchiusi un giorno e mezzo e io rimasi da sola a casa. Avevo appena tre anni”.

Nella memoria di Ruth questi momenti di angoscia sono scolpiti come sul marmo. Come scolpita è la razione di cibo che le spettava in quanto ebrea: circa un chilo di carne, due uova e quattro forme di pane medie per un mese. “Non so come siamo riusciti a sopravvivere, ma mia madre era bravissima”, ricorda ancora Ruth. Una madre che piangeva, tutte le notti, cucendo le stelle di Davide sui vestiti di tutta la famiglia. Dopo quel traumatico giorno di scuola, Ruth smise di uscire di casa e di giocare alla fontana situata nel centro della piazza della città, dove si divertiva a raccogliere le coccinelle perché “non annegassero”. Nonostante uno spiccato talento per le lingue – ne parlava nove correttamente – il padre di Ruth fu costretto a lasciare l’insegnamento pubblico, mentre cercava di racimolare un po’ di soldi con le lezioni private in casa.

Dopo la minaccia di arresto, decise di partire a malincuore per Israele, sperando che senza la sua presenza la moglie e la figlia sarebbero state meno in pericolo. Si sbagliava.

Un nuovo raid nazista nell’appartamento distrusse il pianoforte della mamma, il tavolo dove lui faceva lezione e, a colpi di accetta, fece in mille pezzi i libri custoditi nella libreria di casa. La Germania non era un posto sicuro per loro e per queste ragioni il padre di Ruth tornò a Mannheim, nel 1938, e iniziò a supplicare una parente a Filadelfia perché sponsorizzasse un visto per gli Stati Uniti. “Ricordo papà scrivere lettere su lettere a Stephanie, ottenendo in risposta costanti dinieghi. Penso abbia scritto più di 150 lettere, ricevendo in cambio una frase standard: ‘le strade di New York non sono lastricate d’oro’”, racconta ancora Ruth, spiegando che la cugina temeva di doverli mantenere.

Nel 1938, quando le notizie sulle deportazioni e i ghetti diventarono sempre più diffuse, il visto arrivò. Il padre di Ruth aveva chiesto un prestito di 2.000 dollari alla Hebrew Free Loan Society (HFLS), che in quegli anni inviava denaro agli ebrei decisi a varcare l’oceano. “Non avevamo niente. Ci avevano tolto tutto e abbiamo usato quei soldi per pagare il biglietto da Amburgo a New York”, racconta con lucidità questa fragile e allo stesso tempo fortissima donna. Prima della partenza, i genitori decisero per un ultimo saluto ai nonni che vivevano in un’altra città. “Nella notte dell’Anschluss, quando Hitler aveva deciso di annettere l’Austria, noi soli e ignari di quanto accadeva attorno siamo andati a salutare i nonni per l’ultima volta ad Heidelberg. Non avremmo visto la nonna fino al 1941, quando, dopo che il nonno era morto per un cancro, riuscì a prendere l’ultima nave che salpava dall’Europa per New York”.

Il papà non avrebbe più rivisto neppure tre delle sue sorelle, bruciate vive dentro il ghetto, mentre cercavano di fuggire dentro una macchina.

Ruth è instancabile nel suo racconto di bambina, diventata immediatamente adulta. “Il giorno della partenza per Amburgo ci siamo recati nella stazione di Stoccarda. Avevo una cappelliera, un orsacchiotto piccolo e una bandiera americana. Abbiamo trascorso un giorno e mezzo in quella stazione, su una panchina durissima, senza poter usare i bagni e senza bere”. Ricorda poi che insieme ai genitori venne rinchiusa in una stanza, dove un militare ripeteva che loro non erano un pericolo per la Germania “perché non valevano niente”. Arrivati ad Amburgo, con la nave in attesa di salpare, una nuova fila e un’attesa di ore con i soldati nazisti che arrestavano chiunque non aveva i documenti in regola. “Papà non indossava gli occhiali con cui era stato fotografato nei documenti del visto e ci hanno lasciato ore sul ponte”, prima di decidere che Ruth e i suoi genitori potevano entrare nell’inferno della terza classe e salpare per gli Stati Uniti.

Un viaggio orribile, dove i genitori si ammalarono. Ruth ricorda invece che la sua insegnante di danza, che aveva un biglietto in prima classe, studiò l’espediente di una serata di ballo per farla uscire almeno per qualche ora da quel nuovo ghetto galleggiante. Arrivarono il primo aprile del 1938 a New York, con 4 dollari e 35 centesimi in tasca, ma ancora vivi e “con la voglia di restarci”. Il padre di Ruth trovò lavoro come insegnante a Brooklyn e la sera frequentava un corso di orologiaio e gioielliere per assicurare un nuovo futuro alla famiglia e un appartamento poverissimo, nella parte nord-ovest di Manhattan. Ruth è diventata stilista di tessuti, si è sposata e ha avuto due figlie. Nel 2023, il console tedesco di New York le ha restituito la cittadinanza tedesca, che per oltre 80 anni Ruth non aveva chiesto. In una semplice cerimonia nella casa di riposo, regalmente seduta nella sua sedia a rotelle, Ruth è tornata alle sue radici e, a 93 anni, “mi è stata restituita la mia patria”.





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