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Almasri punto per punto, trumpisti d’Europa, le risorse dell’Ucraina, il turismo ai tempi di TikTok, Luce |
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di
Elena Tebano
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Agricoltura
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Un caso politico La decisione della Procura di Roma di indagare Meloni, Nordio, Piantedosi e Mantovano per il rilascio e il rimpatrio del generale libico Almasri – qui tutti gli aggiornamenti del nostro sito – è una bomba che acuirà lo scontro tra governo e magistratura. In attesa dell’evolversi dell’inchiesta, si può valutare la vicenda sul piano strettamente politico. E dalla ricostruzione di Gianluca emergono le omissioni sia del governo sia dell’opposizione.
Trumpisti d’Europa Le parole d’ordine di Donald Trump stanno conquistando molti leader europei, così come successe con quelle di Ronald Reagan negli anni 80. Nel concreto questo, racconta Massimo Nava, porterà anche anche a un riavvicinamento della Ue alla Russia.
Le risorse ucraine L’Ucraina ha riserve importanti di minerali strategici per i quali, spesso, i Paesi occidentali dipendono ancora dalla Cina, dalla Russia o dai loro satelliti. Federico Fubini spiega perché nel negoziato sulla tregua queste questioni economiche peseranno molto, accanto a quelle militari.
Il turismo ai tempi di TikTok Lo scorso fine settimana Roccaraso, in Abruzzo, è stato preso d’assalto da 250 pullman con diecimila turisti provenienti da Napoli. Troppi per un paesino così piccolo. Ma il caso abruzzese è emblematico di come i social hanno cambiato le dinamiche turistiche.
La Cinebussola Luce di Luca Bellino e Silvia Luzi è un film anomalo, un «puzzle di emozioni», più che una narrazione classica. Si regge tutto, scrive Paolo Baldini, sulla bravura e varietà espressiva di Marianna Fontana, che per calarsi nel personaggio ha lavorato in fabbrica studiandolo per quasi un anno.
Buona lettura.
Se vi va, scriveteci:
Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it Luca Angelini langelini@rcs.it Elena Tebano etebano@rcs.it Alessandro Trocino atrocino@rcs.it
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Rassegna politica |
Cosa non dicono governo e opposizione: il caso Almasri punto per punto |
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Delibera veloce
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è indagata dalla Procura di Roma per favoreggiamento e peculato per il rimpatrio del generale libico Osama Njeem Almasri, comandante della prigione di Mitiga, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Insieme alla premier, sono indagati il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Si tratta insomma delle quattro persone più potenti d’Italia, e succede nel pieno di uno scontro politico senza precedenti tra governo e settori maggioritari della magistratura: senza precedenti, perché non si era mai arrivati così vicini alla riforma imperniata sulla separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, che quegli stessi settori maggioritari considerano la messa sotto tutela del potere giudiziario da parte del potere esecutivo.
In questo clima arriva la notizia-bomba dell’indagine sui vertici del governo. Ne seguirà una tempesta politica di proporzioni enormi. Quello che può essere utile è ricapitolare cos’è successo e – in attesa dell’evolversi dell’inchiesta – osservare quali sono sul piano strettamente politico i punti deboli delle posizioni assunte da governo e opposizione.
- Anzitutto: riepilogo dei fatti Tutto comincia il 19 gennaio, quando Almasri viene arrestato in albergo a Torino, dove era arrivato il giorno prima dalla Germania con un’auto presa a noleggio, e dove aveva appena assistito alla partita Juventus-Milan (qui il racconto delle sue ore nel capoluogo piemontese): fatale la normale registrazione dei dati dell’ospite da parte della struttura, che hanno fatto scattare l’alert automatico sui computer della Digos.
- Il mandato della Corte Proprio sabato 18 gennaio – il giorno prima del suo arrivo in Italia – la Corte dell’Aja aveva emesso un mandato d’arresto nei confronti di Almasri, dando seguito alla richiesta avanzata il 2 ottobre dal procuratore dell’organismo internazionale. Dopo l’arresto, il libico trascorre due notti nel carcere torinese delle Vallette.
- La scarcerazione e il rimpatrio Succede tutto il 21 gennaio. La Corte d’Appello di Roma non convalida l’arresto perché prima che fosse effettuato non era stato avvisato il ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Cpi: questo cavillo è decisivo per capire tutta la vicenda.
- La versione della Cpi Almasri, è la posizione della Corte, «è stato tenuto in custodia in attesa del completamento delle procedure necessarie per la sua consegna. Su richiesta e nel pieno rispetto delle autorità italiane, la Corte si è deliberatamente astenuta dal commentare pubblicamente l’arresto». Fino al rilascio del 21 gennaio, avvenuto «senza preavviso o consultazione con la Corte».
- Il rimpatrio sprint Lo stesso giorno del rilascio, Almasri è stato ricondotto in Libia a bordo di un volo speciale dei servizi segreti italiani, di quelli utilizzati per ragioni di sicurezza e urgenza.
- La versione del governo A esporla al Senato è stato anzitutto il ministro Piantedosi, in questi termini: «A seguito della mancata convalida dell’arresto da parte della Corte d’appello di Roma, considerato che il cittadino libico era a piede libero in Italia e presentava un profilo di pericolosità sociale, come emerge dal mandato di arresto emesso in data 18 gennaio dalla Corte penale internazionale, ho adottato un provvedimento di espulsione per motivi di sicurezza dello Stato. Il provvedimento è stato notificato all’interessato al momento della scarcerazione e, nella serata del 21 gennaio, ha lasciato il territorio nazionale».
- Le parole della premier Meloni ha ribadito così la tesi di Piantedosi: «Almasri è stato liberato su disposizione della Corte d’appello di Roma, non su disposizione del governo. Non è una scelta del governo. Quello che il governo sceglie di fare, invece, di fronte a un soggetto pericoloso per la nostra sicurezza, è espellerlo immediatamente dal territorio nazionale. In tutti i casi di detenuti da rimpatriare di soggetti pericolosi non si usano voli di linea anche per la sicurezza dei passeggeri».
- Le cose stanno davvero così? Non proprio. Come ha scritto Giovanni Bianconi fin dall’inizio della vicenda, «la volontà del governo italiano di ignorare il mandato di arresto del generale Almasri è svelata in una frase del procuratore generale di Roma: “Il ministro della Giustizia, interessato da questo ufficio in data 20 gennaio immediatamente dopo aver ricevuto gli atti dalla Questura di Torino, ad oggi non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito”. Qualunque “irritualità” dell’arresto del generale libico poteva essere sanata dal Guardasigilli, ma Carlo Nordio non ha ritenuto di farlo. Una decisione politica, evidentemente concordata con Palazzo Chigi che prima ha deciso di non convalidare l’arresto di Almasri e poi l’ha riportato in Libia a bordo di un aereo dei servizi segreti italiani».
- Perché è una decisione politica? Perché il governo ha temuto ritorsioni da parte libica, con un aumento pilotato della pressione migratoria. Il tutto, in un mese in cui gli sbarchi sono già aumentati del 136% rispetto al gennaio 2024. Almasri è un personaggio di primo piano nell’apparato libico, in quanto comandante della polizia giudiziaria e a stretto contatto con le strutture preposte al contrasto di terrorismo e criminalità. Le accuse della Cpi nei suoi confronti sono gravissime, ma il governo si è trovato di fronte a un bivio: o rispettare gli obblighi nei confronti della Corte o rischiare rappresaglie. Ha scelto la ragion di Stato con il pretesto di un cavillo. Se tutto questo abbia risvolti penali è tutto da chiarire. Il caso è anzitutto politico. Ma proprio dal punto di vista politico ha radici antiche.
- Cosa (non) dice l’opposizione Tutte le forze avverse a Meloni hanno attaccato il governo perché ha ignorato la Corte dell’Aja e liberato il presunto criminale. Quello che non dicono è che lo schema dell’accordo con i libici per trattenere i migranti non l’ha inventato Meloni. Lo ha ricordato Goffredo Buccini: «Noi abbiamo con la Libia un Memorandum che risale al 2017. Tale accordo fu siglato dal ministro Pd Minniti quando si andava verso la proiezione-choc di 250 mila sbarchi in un anno: il Memorandum, con cui facevamo patti con le tribù locali e la guardia costiera tripolina, impedì che l’Italia subisse un devastante tsunami di migrazioni e in un anno gli sbarchi calarono del 77%. Era discutibile sul piano etico? Lo era. Servì a evitare che esplodesse da noi un conflitto sociale? Certamente. Da allora il Memorandum non è mai stato contraddetto e, anzi, è stato rinnovato nel 2020 e nel 2023, quindi sotto governi di diverso segno. Il torturatore di Mitiga è probabilmente depositario di scomodi dettagli su quegli accordi oltre che controllore di un rubinetto umano non a caso riattivatosi nelle 48 ore della sua detenzione con mille sbarchi in un colpo solo. Destra e sinistra, che per ragioni opposte ma convergenti sorvolano sul punto impancandosi in dispute morali o giuridiche, trattano gli italiani come fanciulli».
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Rassegna europea |
Il «trumpismo» conquista l’Europa e aiuta la Russia |
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Qualcuno ricorderà l’«edonismo reaganiano», la «reaganomics», il primato dell’economia sulla politica, insomma il vento americano del presidente Ronald Reagan che soffiava in Europa negli anni Ottanta. La storia si ripete. Prospettive e contenuti diversi, o ancora da valutare, da quando soffia il vento di Donald Trump, ma è certo che il vento sta già conquistando spiriti e cervelli. Soprattutto quelli dei leader politici. Altro che «ponte» Usa-Europa secondo l’auto candidatura di Giorgia Meloni. Qui si sta aprendo un’autostrada di idee, proposte, progetti che finirebbe per cambiare la natura stessa del modello e del sogno europeo. Green Deal, libertà sessuali, istruzione, migranti, rapporto con la Russia, riforme costituzionali, controllo dell’apparato giudiziario, ingerenze e condizionamenti sull’informazione: il catalogo è questo, leggete un po’ qua.
Il presidente del Rassemblement National, Jordan Bardella, ha proposto al presidente del Partito popolare europeo, Manfred Weber, leader nell’europarlamento della Cdu (il partito gran favorito alle elezioni tedesche di febbraio), di unire le forze per porre fine al Green Deal. In pratica, un’unione contro natura di destra ed estrema destra per affossare uno dei traguardi più significativi della recente storia europea. Esattamente come ha già fatto Trump, cancellando gli Usa dagli accordi di Parigi sul clima.
Bardella, che è pure presidente del gruppo Patriots for Europe (Pfe) si rivolge anche ai co-presidenti del gruppo Europa delle Nazioni Sovrane (Esn) René Aust e Stanisław Tyszka e all’omologo dei Conservatori e Riformisti Europei (Ecr) Mateusz Morawiecki. Inoltre propone che il divieto dell’Unione europea di vendere nuove auto a benzina e diesel entro il 2035 venga abbandonato del tutto.
Va ricordato che da tempo ambienti conservatori esprimono il timore che il Green Deal sia un freno all’economia. Il deputato dell’estrema destra francese Fabrice Leggeri ha dichiarato a Euractiv che i Patrioti e l’Ecr sostengono pienamente la sospensione, e anche la destra «morbida» del Ppe sta iniziando a «svegliarsi». Del resto, il primo ministro polacco Donald Tusk, presidente di turno del Consiglio dell’Unione europea, ha chiesto una «revisione completa e molto critica» di tutte le leggi sul Green Deal. Anche alti esponenti del Ppe, tra cui il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, hanno fatto commenti simili.
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Si piange sul cambiamento climatico, ma si vuole affossare il Green Deal, mentre il mantra che mette d’accordo tutti è l’investimento in armamenti per la difesa europea, sui cui ha fortemente insistito Donald Trump. Concetto vago in termini programmatici, che per ora si traduce in importanti forniture americane. La Polonia è diventata il capofila dei Paesi che più investono nella difesa, avvicinandosi al 5 per cento del Pil. Tusk, nei giorni scorsi, ha rivolto un appello ai partner europei perché la difesa diventi una priorità assoluta. Un appello in sintonia con i desiderata della Casa Bianca : «Se oggi Trump parla della necessità di assumersi maggiori responsabilità per la propria sicurezza, consideriamola come una sfida positiva», ha proseguito Tusk, evidenziando che «solo un alleato può augurare al proprio alleato di essere più forte».
Ma c’è molto altro in pentola, su altri fronti. Tutti guardano alle elezioni tedesche, alla tenuta di una maggioranza impegnata a favore di Kiev che possa spingere l’Ue a controbilanciare un eventuale ritiro americano. Ma qui il miliardario Elon Musk è intervenuto pesantemente nella campagna elettorale, invitando i tedeschi a votare per il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (Afd), le cui posizioni filo russe sono note. Friedrich Merz, leader della Cdu e favorito nei sondaggi, ha ipotizzato un accordo con Afd per favorire respingimenti d’immigrati. In pratica, una crepa nella barriera contro l’estrema destra.
Il premier slovacco Robert Fico ha presentato una proposta di modifica della Costituzione. Le modifiche proposte includono la definizione di matrimonio come unione unica tra un uomo e una donna – riconoscendo legalmente solo due generi – e il divieto di adozione di bambini da parte di coppie omosessuali. La Costituzione slovacca stabilisce inoltre che «gli atti giuridicamente vincolanti delle Comunità europee e dell’Unione europea hanno la precedenza» sulle leggi nazionali. Ma secondo Fico, questo concetto dovrebbe essere seguito dalla clausola: «Questo non si applica se questi atti giuridicamente vincolanti sono in conflitto con la Costituzione della Repubblica Slovacca».
Fico entra a pieno titolo nella galleria di leader che in modo surrettizio o plateale si stanno riavvicinando alla Russia con l’intento di interrompere il sostegno all’Ucraina e mettere fine alla guerra. In pratica, un altro punto a favore di Trump. Sacrificata, come probabilmente accadrà, l’Ucraina, resta da vedere chi pagherà il conto della guerra. L’arrivo al potere dell’estrema destra filorussa in Austria è l’ultimo segnale in ordine di tempo.
Un altro allarme arriva dalla Romania, in pieno caos dopo le elezioni presidenziali. È nota la posizione del primo ministro ungherese Victor Orbán. Robert Fico minaccia di tagliare «gli aiuti umanitari» per i rifugiati, se Kiev non riprenderà il transito del gas russo. In Repubblica Ceca le cose potrebbero cambiare alle elezioni legislative d’autunno. I sondaggi prevedono un’ampia vittoria del populista Andrej Babis. La Bulgaria, un altro Paese dell’Ue e della Nato fondamentale per l’appoggio all’Ucraina, è in crisi politica, con forze filorusse in ascesa. I croati hanno rieletto (con il 74 per cento dei voti) il presidente uscente Zoran Milanovic, considerato amico dei russi.
Alle posizioni politiche seguono i fatti, in un fuoco d’artificio di ipocrisie e false narrazioni di cui prima o poi anche la buona coscienza degli europei dovrà rispondere. Come denuncia un lungo rapporto di Foreign Policy, gli affari e gli scambi commerciali con la Russia da parte di aziende europee e americane non si sono affatto interrotti e non riguardano soltanto le fonti energetiche. In barba alle dichiarazioni di intenti e a roboanti conferme di sanzioni, i dati elaborati dalla Kyiv School of Economics mostrano che, al 2023, circa 800 multinazionali occidentali e di Paesi affini operavano ancora in Russia, o perché avevano deciso di rimanervi o perché continuavano a generare ricavi. Scorrendo i dati, emergono due fatti. «In primo luogo, circa il 60% delle aziende globali che operavano in Russia prima dell’invasione su larga scala iniziata nel febbraio 2022 continuano a farlo. In secondo luogo, Germania, Stati Uniti e Francia sono di gran lunga i primi tre Paesi di origine delle imprese occidentali che mantengono una presenza in Russia».
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Come sostiene Agathe Demarais, editorialista di Foreign Policy e senior policy fellow sulla geoeconomia presso lo European Council on Foreign Relations, autrice di un libro bianco sulle sanzioni alla Russia, «le aziende occidentali continuano a fare affari in Russia e aiutano Mosca a finanziare la guerra in Ucraina attraverso il pagamento delle imposte sulle società russe. Non si tratta nemmeno di un investimento sano: le imprese occidentali non possono rimpatriare i profitti ottenuti in Russia e i beni che possiedono sul territorio russo non sono più realmente di loro proprietà».
Nel 2022 e 2023, le imprese del G-7, dell’Unione europea e delle economie affini hanno generato circa 370 miliardi di dollari di entrate sul territorio russo. Nei primi due anni di guerra, le imprese occidentali hanno trasferito alle casse dello Stato russo più di 11 miliardi di dollari in tasse societarie, di cui un decimo è stato versato dalla banca svizzera Raiffeisen. I dati non sono ancora disponibili per il 2024, ma una stima approssimativa suggerisce che le aziende occidentali hanno probabilmente pagato altri 4-6 miliardi di dollari in tasse societarie, portando il totale a circa 16 miliardi di dollari incanalati verso il Cremlino dall’inizio dell’invasione. «Due dati aiutano a contestualizzare questa cifra. In primo luogo, 16 miliardi di dollari sono sufficienti a Mosca per comprare 5.300 missili Iskander, 1.100 missili balistici Kinzhal o 320.000 droni Shahed».
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Whatever It Takes |
Litio, titanio, uranio e grafite: le risorse dell’Ucraina che piacciono a Trump |
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![Ucraina, la nuova corso all’oro: litio, titanio, uranio e grafite (a basso prezzo) piacciono a Trump](data:image/gif;base64,R0lGODlhAQABAIAAAAAAAP///ywAAAAAAQABAAACAUwAOw==)
Fonte: Ministry of Environmental Protection and Natural Resources of Ukraine
Ci sono quei momenti fortuiti che ti aprono una finestra. A me è successo giovedì, quando Donald Trump ha iniziato a parlare dell’Ucraina nel suo collegamento al World Economic Forum. Ero in sala, a Davos. Il presidente degli Stati Uniti voleva parlare della strage di militari e civili, dell’importanza di far scendere il prezzo del petrolio per ridurre le entrate della Russia e obbligarla a negoziare un cessate-il-fuoco. Eppure, ha iniziato con una mezza frase che alludeva ad altro: «Qui non parlo di risorse naturali, parlo di vite umane…». Ma perché la prima idea a transitare dalla testa di Trump era stata quella di «risorse naturali»? Ho cercato di approfittare della presenza a Davos di tanti attori nel conflitto ucraino, di quelli che si muovono dietro le quinte. Ho capito che il negoziato sulla tregua, nella sua preparazione, si distribuisce su tre tavoli: uno sui temi militari, gli altri due su temi economici. E qui non tutto è perfettamente confessabile. Vediamo.
Da molti mesi il governo di Volodymyr Zelensky sa di dover affrontare la realtà per com’è: l’Ucraina probabilmente non entrerà nella Nato fino a quando Vladimir Putin sarà in vita; non entrerà nell’Unione europea almeno per un’altra decina di anni; e l’amministrazione Trump non la aiuterà, se non vede motivi concreti di interesse particolaristico e immediato per sé. Può piacere o no, ma è così. Di qui la nuova strategia di Kiev. Oggi Zelensky non prova più tanto ad accelerare l’integrazione con l’Occidente sulla base di trattati formali, ma di interessi tangibili; ai governi europei, ma soprattutto agli Stati Uniti, l’Ucraina cerca di prospettare qualcosa che li alletti; qualcosa che parli all’avidità di alcuni e alla disperata ricerca di soluzioni industriali di altri.
Già, ma cosa? Vediamo nell’ordine i tre tavoli, partendo da quello militare. Molto si gioca sulle «garanzie di sicurezza» che l’Ucraina chiede in caso di tregua, per non dover rischiare nuove aggressioni dopo quelle del 2014 e del 2022. Un eventuale contingente di interposizione lungo la linea di contatto fra i due eserciti sarebbe dunque l’elemento di base di una protezione credibile per il Paese. Su questo ho scritto da Davos per il Corriere negli ultimi giorni e mi limito ad aggiungere solo gli aspetti ancora non del tutto emersi. Di un contingente di pace in Ucraina hanno iniziato a parlare Emmanuel Macron e Donald Trump a Parigi il giorno dell’inaugurazione di Notre-Dame. La Francia ne sta discutendo in questa fase soprattutto con Regno Unito, Polonia e Germania (in quest’ordine). Ma nessun governo europeo oggi accetta un proprio impegno militare di peacekeeping in Ucraina, senza avere prima assicurazioni di poter contare alle spalle sul sostegno degli Stati Uniti – almeno logistico, di armi e probabilmente aereo – qualora la situazione sul terreno si complicasse.
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Il costo di un’eventuale operazione di pace e delle garanzie all’Ucraina è talmente alto che si sta tornando a parlare del sequestro delle riserve russe congelate per circa 250 miliardi di euro; ma anche su questo l’Europa è divisa e lontana da un accordo, che infatti per ora non sembra probabile.
Intanto il fronte ucraino in Donbass è sotto pressione, il costo in vite umane da entrambe le parti è orrendo, il morale delle truppe di Kiev basso e alcune persone molto ben informate non escludono più possibili rotture in alcuni punti della linea difensiva, con rapide avanzate russe in certe aree. Anche per questo Putin per adesso non sarebbe disposto a discutere, se non una capitolazione di fatto: vuole ancora soggiogare l’Ucraina, esattamente come il primo giorno di guerra; ma sembra che i suoi più stretti collaboratori non abbiano osato informarlo in modo chiaro delle crepe che si stanno aprendo nell’economia russa.
Con queste premesse sul piano militare, per niente semplici, sono aperti due tavoli che mirano a creare un accordo commerciale con Trump e integrare di fatto l’Ucraina nelle economie occidentali.
Il primo dei due riguarda la produzione di armi e mezzi militari. In trentacinque mesi di guerra l’Ucraina si è trasformata nell’industria della difesa più attiva d’Europa e a basso costo d’Europa, arrivando a produrre – da zero – due milioni di droni da guerra l’anno, artiglieria, mezzi, missili a gittata medio-lunga. La totale assenza di vincoli sulla nuova industria militare, la febbrilità e l’efficienza dei suoi produttori sono tali che c’è un’intesa perché parte dell’ultimo pacchetto di aiuti dell’Unione europea – da quasi 40 miliardi di euro – sia usato proprio per questo. Meglio dare agli ucraini i fondi per costruirsi prima da sé parte delle proprie armi con meno spesa, che farli aspettare di più per poi inviare loro meno mezzi costruiti in Europa occidentale a costi più alti. Ma questo è solo il primo passo. L’offerta di Kiev, soprattutto dopo un’eventuale tregua, è di costruire in Ucraina pezzi e componenti dei mezzi di difesa per gli eserciti europei e anche per gli Stati Uniti: droni, proiettili e tutto ciò che già oggi le imprese locali fanno per le forze di Kiev. Il vantaggio per i governi occidentali – visti i loro budget sempre sotto pressione – è di delocalizzare certe produzioni militari in un Paese vicino efficiente, alleato e a basso costo. Il vantaggio per l’Ucraina sarebbe di entrare a occupare un ruolo di rilievo nelle catene di fornitura strategiche dell’Europa e degli Stati Uniti. Sarebbe una forma concreta di integrazione nell’economia e nella politica dell’Occidente: ciò per cui generazioni di ucraini lottano da almeno trent’anni. Da lì diventa più difficile essere ricacciati indietro o abbandonati nella morsa della Russia. E, da quanto capisco, questa idea viene presa molto sul serio in alcuni Paesi del G7.
Il terzo tavolo dei colloqui è però quello dove c’è più movimento. L’Ucraina ha riserve importanti di minerali strategici sui quali, spesso, i Paesi occidentali dipendono ancora dalla Cina, dalla Russia o dai loro satelliti. Fra questi:
- il berillio, finora prodotto solo da Cina, Kazakhstan e Stati Uniti e usato tra l’altro in reattori e armi nucleari, strumenti di precisioni, propellenti missilistici, satelliti e veicoli aerospaziali;
- il litio, di cui la Cina è il terzo produttore mondiale, l’Unione europea è quasi del tutto sprovvista ma è indispensabile fra l’altro per le batterie di accumulo, l’industria nucleare, il fotovoltaico, i computer e gli smartphone;
- la grafite, sempre più usata nelle batterie, nell’aerospazio, dell’industria meccanica e così concentrata nella produzione che la Cina controlla il 77% del mercato mondiale
- il titanio, oggi controllato da Cina, Russia e Kazakhstan da soli quasi per l’80% del mercato mondiale; eppure, indispensabile per industrie come aerospazio e aeronautica, cantieri navali, auto, strumenti medicali.
- l’uranio, fondamentale per il settore nucleare ma per il quale l’Europa dipende ancora da Kazakhstan, Uzbekistan e Russia.
E poi ancora oro, zirconio, tantalo, cobalto e naturalmente gas naturale.
Le quantità provate di litio, titanio e uranio in Ucraina sono segreto di Stato. Ma sul litio il Paese sembra avere un terzo delle risorse europee e il 3% di quelle mondiali; sul titanio l’Ucraina è il primo Paese d’Europa e, malgrado la guerra, ha il 6% della produzione mondiale concentrata in regioni lontane dal fronte; sulla grafite il governo sostiene di avere riserve per 343 milioni di tonnellate, fra le prime cinque al mondo (sempre ben lontane dal fronte di guerra). E così via. Zelensky e le persone attorno a lui oggi hanno fretta di mettere all’asta le licenze di sfruttamento dei giacimenti perché – ancora una volta – cercano di legare l’Ucraina attraverso di esse agli interessi occidentali. Cercano di integrarla in concreto e attrarre investimenti. A una riunione a Davos ho sentito dire al viceministro dell’Economia ucraino Oleksiy Sobolev: “Se aspettate e esitate a investire nelle nostre risorse naturali, lasciate spazio ai vostri concorrenti”.
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Di certo francesi, tedeschi, in parte canadesi e soprattutto gli americani si stanno già muovendo. Parigi è potenzialmente interessata all’uranio per le centrali atomiche e al titanio per la filiera aerospaziale di Airbus (ma vuole verificare le consistenze dei depositi con esperti propri). Si capisce così anche l’uscita di Trump, che al solo pensare all’Ucraina ha subito citato le “risorse naturali”. A Davos ho visto un ammiraglio in pensione della marina americana, Micheal Hewitt, con evidenti contatti nell’establishment repubblicano a Washington e oggi attivissimo sui minerali ucraini attraverso la sua azienda Ip3 International. Diceva, a Davos, Hewitt: «I rapporti economici (grazie ai minerali, ndr) creano la connessione con l’America e valgono molto di più che sconfiggere Putin». E ancora: «Parleremo dell’Ucraina fra 15 anni come dell’Arabia Saudita oggi: il suo uranio sarà fondamentale per l’industria nucleare che alimenterà i data center per l’intelligenza artificiale negli Stati Uniti. Sarà parte del dominio energetico. Il Paese sarà un interesse nazionale vitale per l’America e questo conta più che vincere la guerra».
Be’, credo che vincere questa guerra conti ancora molto, in verità. Resta poi da capire quante delle risorse di cui si parla siano realmente sfruttabili. Ma se lo fossero e arrivassero investimenti da Occidente, sarebbe una svolta per il meglio. Non fosse che mi restano due riserve.
La prima riguarda lo spirito che avverto soprattutto nei tedeschi e negli americani, sulle risorse ucraine: ritengono di avere un diritto acquisito al loro sfruttamento, per le decine o centinaia di miliardi di dollari o euro che hanno impegnato in questi anni per il Paese; di fatto sarebbe quasi un risarcimento. Il secondo dubbio è legato al primo, perché entrare in piena guerra nelle aste per licenze e cessioni dei giacimenti significa volerlo fare a un prezzo molto sotto al valore reale delle risorse. Con investimenti per centinaia di milioni di dollari si possono ottenere depositi da decine o centinaia di miliardi.
Sconsiglierei. E non solo perché suona cinico, una spartizione delle spoglie, approfittare della debolezza attuale del governo di Kiev. La storia post-sovietica insegna: quando le privatizzazioni diventano svendite a favore di chi può, seguiranno solo sventure. I minerali ucraini vanno pagati al loro valore, non una grivnia di meno.
Questo articolo è apparto in origine nella newsletter del Corriere della Sera Whtever it takes, a cura di Federico Fubini. Per iscriversi, cliccare qui.
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Rassegna social(e) |
L’assalto a Roccaraso, gli influencer e il turismo al tempo dei social |
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L’assalto dello scorso fine settimana a Roccaraso, quando nel paesino abruzzese che conta 1.400 abitanti e permette l’accesso agli impianti sciistici dell’Aremogna sono arrivati 250 autobus dalla Campania con oltre diecimila persone, sembra poco più di un fatto folcloristico, che ha fatto scalpore soprattutto per le immagini della folla sulla neve. In realtà è un esempio eclatante del turismo di massa ai tempi dei social e delle sue illusorie promesse di rendere a portata di tutti i lussi nati per pochi.
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Per capirlo bisogna partire da domenica, quando a Roccaraso arrivano — secondo una stima del sindaco — circa 250 pullman con 10-12 mila persone. Il fenomeno non è nuovo, e infatti il Comune vieta ai mezzi pesanti di arrivare in paese. «E allora i visitatori, a frotte, vengono scaricati sulla statale 17, dove si creano code e caos inenarrabili, con blocchi, lunghissime attese, rischi per la viabilità e per le persone» ha spiegato il sindaco Francesco Di Donato al sito Abruzzo Web Turismo.
Gli autobus arrivati questo fine settimana erano molti di più del solito, così tanti che era praticamente impossibile muoversi, sia in auto che a piedi. E per tornare a Napoli hanno impiegato sei ore. Perché i turisti sotto accusa sono proprio quelli provenienti da Napoli. In un’intervista a Simona Brandolini sul Corriere il sindaco Di Donato ha detto che non si tratta di “razzismo” ma di buon senso: «Roccaraso accoglie e vuole accogliere sempre più turisti, ma sciatori civili e corretti. Le persone che vengono a Roccaraso con le case o in albergo portano benessere e hanno i servizi. Che aumenteremo sempre più. Ma il sistema Roccaraso non è in grado di reggere l’assalto di chi viene solo la domenica. Non possiamo mettere mille bagni chimici in una stazione sciistica. Io sto per strada, queste persone non hanno la pazienza, si innervosiscono, non gliene frega niente delle macchine che arrivano. Prima o poi si rischia l’incidente. Lo dico con fermezza: devono affrontare questo fenomeno come se fosse una partita di calcio» (il riferimento è alla prefettura e al servizio d’ordine che viene organizzato quando in zona c’è il ritiro del Napoli). I turisti dell’assalto invece non erano né sciatori, né disposti a spendere in servizi e alberghi, tantomeno proprietari di case. Sempre il sindaco: «Agenzie campane spingono per viaggi mordi e fuggi a Roccaraso, con l’aiuto di influencer, e si creano caos indicibili perché tocchiamo numeri ingestibili».
La maggior parte dei pullman arrivati questo fine settimana a Roccaraso partivano da Napoli e in particolare da Secondigliano. I media locali hanno riportato le pubblicità sui social che offrivano gite in giornata con partenza alle 6, con pranzo al sacco compreso, per 30 euro. A fare la differenza, però, secondo tutte le cronache, è stato il richiamo degli «influencer». Una settimana prima Roccaraso c’era stata Rita De Crescenzo, tiktoker da un milione e 700 mila follower. Libero.it la descrive così: «Nasce il 10 agosto 1979 a Napoli e crescendo la sua infanzia non è delle più semplici. Quando ha solo 12 anni rimane incinta e il padre del bambino è un uomo del clan dei Contini, un gruppo della Camorra. Nel 2017 la donna si ritrova in un guaio con la legge e anni dopo, una volta raggiunto il successo, parla apertamente con i propri fan dell’accaduto spiegando “Sono stata arrestata con l’accusa di spaccio di droga ma ne sono uscita assolta”. Diventa nota su internet intorno al 2020 quando litiga su TikTok con una signora e il suo video di risposta in cui dice “Ce la fai a combattermi? Mettiti la fascia in fronte e scendi in campo. Svergognata” diventa virale. Da questo episodio nel 2021 trae la sua prima hit, la canzone Ma te vulisse fa na gara e ballo? che su YouTube supera le 7 milioni di visualizzazioni. Diventa così molto seguita su TikTok e anche su Instagram e la carriera come musicista la porta a esibirsi in concerto cantando brani come Ma chi site e Cameriere».
De Crescenzo è una moderna maschera napoletana: accento marcato, lunghi capelli neri corvini, trucco pesante, labbra prominenti. Il video su Instagram in cui si rotola con il figlio nella neve di Roccaraso hanno una didascalia a lettere maiuscole che è da sola un melodramma: «Kekko a mamma… scusa per tutto quello che hai passato non ero io… spero che mi hai perdonata e che oggi mi vedi una mamma cambiata ti amo figlio mio». Il 21 gennaio ha pubblicato vari video, compresi quelli in cui riprende il figlio «sciare per la prima volta».
Rita De Crescenzo (Instagram)
Nel milione e mezzo dei suoi follower c’erano molte persone che come il figlio di Rita De Crescenzo non avevano mai sciato e neppure mai visto la neve. E cosa sono 30 euro per vedere la neve per la prima volta? Ce li hanno anche i turisti che non sono né sciatori, né clienti d’albergo né proprietari di casa. Che per forza di cose non sanno niente di come si sta sulle piste, perché in montagna non ci sono mai stati. E che forse sono abituati alla prepotenza che regna in molte strade di Secondigliano. Solo che la promessa «low cost» (la parola più usata nelle cronache da Roccaraso) dei social è per definizione illusoria, perché si basa sui grandi numeri. E i grandi numeri sono incompatibili con l’esperienza esclusiva del turismo «alto» che fanno desiderare.
A Roccaraso questo cortocircuito è andato in scena all’ennesima potenza grazie al moltiplicatore della «napoletanità». Ma è sempre più frequente all’epoca dei social: post e content creator (spesso pagati per fare pubblicità) attirano sempre più persone in luoghi sempre più decontestualizzati, conosciuti solo attraverso una foto o un video. Per poi scoprire che il contesto intorno a quella foto o quel video non può reggere così tanti numeri. E il paradiso promesso diventa un inferno.
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La Cinebussola |
Luce, le ferite dell’assenza (e una prova magistrale di Marianna Fontana) |
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Si avverte un vuoto, una sofferenza multitasking, una solitudine tracimante nell’esistenza della ragazza senza nome di Luce, il film di Silvia Luzi e Luca Bellino proposto a Locarno 2024, ora nelle sale con Barz And Hippo, prodotto da Donatella Palermo per Bokeh Film, Stemal Entertainment, Rai Cinema. La ventenne senza nome vive sola con una gatta, Molly, e lavora come operaia in una fabbrica di pellami a Solofra, Avellino. Beve, fuma, adora sentire sulle mani le onde del mare. Ha poche amiche e un rapporto difficile con gli uomini: è diffidente, chiusa a riccio, vittima di un evidente disagio che il film lascia imprecisato. Poi un giorno, a rompere quella bolla di malessere, arriva attraverso il cellulare una voce nebbiosa. «Chi parla?». «Sono io».
A chi appartiene quella voce che sa tutto della ragazza, la lusinga e la rimprovera. «Mi piace parlare con te. Parlare è tutto». È forse il padre che riprende un contatto interrotto anni prima? Si tratta di un semplice stalker? O l’uomo dialoga dall’Aldilà? Da alcuni dettagli si intuisce che potrebbe essere un detenuto in cerca di redenzione. Le conversazioni convergono su una rabbia comune. L’uomo si perde in malinconie. Poi è duro. Talvolta piange, spesso si scusa. La giovane, prima riluttante, si lascia andare: i colloqui diventano un’ossessione. Quando è lei a richiamare, lui la redarguisce: «Non farlo mai più!».
Storia di comprensioni tardive, di fatica a riconoscersi. Poi il vuoto lentamente si colma e la ragazza senza nome trova il coraggio per andare avanti verso quella luce che il titolo del film promette. Non importa da dove venga quella voce e neanche a chi appartenga. Bellino e Luzi fanno di questa vaghezza un punto di orgoglio. Il loro è un puzzle di emozioni più che una narrazione classica per date, fatti e antefatti, che inevitabilmente guarda a La voce umana di Jean Cocteau.
La struttura è teatrale, claustrofobica, arrotondata nel tragitto tra la fabbrica e il modesto bilocale della protagonista. I due registi usano un dialogo centellinato. La cinepresa a mano, alla Cassavetes, s’incolla ai primissimi piani. È il cinema delle comunicazioni interrotte, del chiasso digitale che copre il cigolare delle coscienze. Resta un sostanziale senso di irrisolutezza: il racconto non ha origini né un punto di arrivo. È un inno alla forza delle parole per rinascere. Marianna Fontana, lanciata da Edoardo De Angelis con Perez, Vieni a vivere a Napoli e Indivisibili, nonché protagonista di Capri-Revolution di Mario Martone, è un’interprete davvero sorprendente per efficacia e varietà espressiva: si tiene il film addosso dalla prima all’ultima sequenza, trasformandolo in una parabola / metafora inquietante sugli affetti perduti o da riconquistare. Per interpretare la ragazza tradita dal destino, a quanto pare, ha lavorato con turni stressanti in una vera fabbrica, studiando il personaggio per quasi un anno. La voce profonda di Tommaso Ragno è il suo degno contraltare (e la sua rete di protezione).
LUCE di Luca Bellino e Silvia Luzi (Italia, 2024, durata 95’, Barz And Hippo) con Marianna Fontana e Tommaso Ragno Giudizio: 3 ½ su 5 Nelle sale
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