Caro caffè, Semakula (MDL): “Creare cultura per accettare aumento dei prezzi e rendere filiera sostenibile”

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Climate change e caro energia fanno schizzare in alto il prezzo del caffè, che raggiungerà 2 euro alla tazzina in diversi bar italiani. Ma il vero problema non è il prezzo ma l’insostenibilità economica e ambientale della filiera. “Per un mercato del caffè realmente sostenibile, bisogna accettare l’aumento del prezzo della materia prima”, secondo Jovin Semakula, CEO della società Benefit MDL

Il caffè costa sempre più, ma il vero problema è un altro: la filiera è insostenibile dal punto di vista ambientale ed economico. Infatti, quest’anno il cambiamento climatico e il caro energia faranno lievitare il prezzo di una tazzina al bar, che in molti casi raggiungerà i 2 euro. Spostando lo sguardo oltre le nostre tasche, però, appare evidente che il problema principale che affligge la bevanda più amata dagli italiani è un altro: la sostenibilità ambientale ed economica dell’intera filiera, dal produttore fino al consumatore, ancora molto opaca e appesantita da troppi intermediari. Infatti, sono ancora troppi i nodi che danneggiano la complessa filiera del caffè, gonfiandone i prezzi e intensificando le produzioni a livelli non sostenibili. Elementi che hanno un impatto decisivo sul prezzo finale al bar. La soluzione, secondo Jovin Semakula, CEO della società Benefit MDL – Montagne della Luna, è creare una cultura del caffè ed accettare l’aumento del prezzo della materia prima, a patto che rispecchi il reale valore del prodotto.

CAFFE’, LA RICETTA DELLA SOSTENIBILITA’

2,5 milioni di sacchi consumati all’anno, 95 milioni di tazzine al giorno. Sono i numeri del caffè in Italia, un giro d’affari che vale 7 miliardi di euro l’anno e dà lavoro a settemila lavoratori nel nostro Paese. Ora gli operatori lanciano l’allarme prezzi. L’anno scorso siccità e caldo record hanno messo in ginocchio diverse coltivazioni nei principali Paesi produttori, tra cui figurano Brasile, Vietnam e Uganda. Infatti, la temperatura media annua ha superato i 25 gradi, 2 in più rispetto alla temperatura indicata per le piante di caffè. Anzi, per la qualità “Robusta” bisognerebbe scendere fino a 20,5 gradi, secondo quanto emerge da una ricerca australiana pubblicata su Global Change Biology.

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Cosa si può fare in Italia per sostenere la transizione verso una filiera del caffè più equa e sostenibile?

“Sono convinta che il cambiamento debba partire dall’incentivare una reale Cultura del caffè e di tutto ciò che vi ruota attorno. Bisogna studiare, imparare e curiosare e capire cosa c’è dietro a una filiera ancora tanto opaca e appesantita dai troppi intermediari.
In Italia, in particolare, ci sarebbe bisogno di un lavoro meticoloso di formazione che coinvolga non solo i consumatori finali, ma anche e soprattutto torrefattori e bar, promuovendo una cultura del consumo consapevole che vada al di là dei preconcetti ormai radicati e informi sul valore reale della materia prima, sulle diverse miscele e le qualità differenti: così si potranno sensibilizzare i consumatori sull’origine del caffè che scelgono di bere e sull’impatto delle loro scelte”, spiega Jovin Semakula, Ceo e fondatrice di Montagne della Luna, Società Benefi che si occupa della distribuzione di caffè e altre materie prime dell’Uganda con l’obiettivo primario di liberare le comunità locali dalla morsa degli intermediari e di restituire loro un presente e un futuro migliori, più giusti e sostenibili.

“Sfruttando la passione italiana per questa bevanda, si potrebbe promuovere una filiera più giusta e sostenibile, creando un modello virtuoso che coniughi qualità, tradizione e responsabilità sociale, come stiamo facendo in MDL. Questo approccio non solo migliorerebbe le condizioni dei produttori ugandesi, ma rafforzerebbe anche l’immagine dell’Italia come leader nel settore del caffè di qualità e sostenibile. Infine, per un mercato del caffè realmente sostenibile, bisogna accettare l’aumento del prezzo della materia prima, comprendendo tutti i fattori che lo determinano. La percezione del valore dei chicchi, in definitiva, è la soluzione per la sostenibilità”, aggiunge Semakula.

Come funziona attualmente la distribuzione di caffè prodotto in Uganda?

“Il caffè rappresenta un mercato fondamentale e in crescita per l’Uganda, uno dei principali Paesi produttori al mondo, rinomato soprattutto per la qualità Robusta. La sua produzione contribuisce al 2% del PIL nazionale, grazie a 353.000 ettari di terreno coltivabile, e il Paese punta a crescere ulteriormente con l’obiettivo di raggiungere almeno 20 milioni di sacchi all’anno rispetto agli attuali mezzo milione di sacchi al mese. La coltivazione del caffè avviene prevalentemente in appezzamenti di meno di 2,5 ettari, tenuti da piccoli agricoltori che gestiscono oltre l’80% della produzione e, spesso, dipendono quasi interamente da questi terreni per il loro sostentamento. Il processo produttivo rimane fortemente legato a metodi tradizionali: i chicchi vengono raccolti a mano, selezionando solo quelli più maturi, e successivamente sottoposti a fermentazione ed essiccazione al sole, un lavoro di circa 30-40 giorni che richiede grande precisione e dedizione, e che viene svolto prevalentemente in aree rurali e montane. Una volta essiccati, i chicchi passano tra le mani dei primi intermediari della filiera e avviene così la prima trattativa. Qui entra in gioco il lavoro dei huller, le stazioni di pulizia dove i chicchi essiccati vengono lavorati per ottenere il caffè verde pronto per l’esportazione. Questa fase è particolarmente gravosa per i coltivatori, che spesso devono coprire lunghe distanze a piedi o in bicicletta per trasportare i sacchi.

In questo senso, le cooperative giocano un ruolo cruciale nel supportare i farmer, garantendo la qualità del prodotto e negoziando prezzi più favorevoli per i membri: noi stessi in MDL collaboriamo con un’organizzazione che dispone di infrastrutture proprie, come i dry mill e i wind mill. Successivamente, si passa al processo di esportazione vero e proprio, destinato principalmente a mercati internazionali, tra i quali spicca l’Italia come uno dei principali importatori. Il sistema di distribuzione, però, non è esente da sfide: ciascun intermediario riduce i margini di guadagno dei farmer, il cui lavoro e valore non viene adeguatamente riconosciuto ma anzi colpito e limitato; inoltre, la carenza di infrastrutture adeguate alla lavorazione e lo stoccaggio può compromettere la qualità del caffè, e la volatilità dei prezzi globali crea instabilità economica”.

Quanto e come l’errata coltivazione e produzione impattano oggi sull’ambiente?

“Gli effetti negativi che derivano da pratiche agricole scorrette in questo campo non vanno trascurati, anche alla luce della crescente domanda di caffè a livello globale. Ad oggi, però, fortunatamente l’Uganda è uno dei Paesi più sostenibili al mondo in termini di coltivazione e cura delle piantagioni di caffè. Innanzitutto, l’impatto più evidente dell’errata coltivazione è la deforestazione: per stare al passo con i volumi di caffè in aumento, negli ultimi 30 anni, la produzione è cresciuta di circa il 60%, impattando significativamente l’ambiente, e si stima che, entro il 2050, essa dovrebbe triplicare, richiedendo la conversione in terreni agricoli del 60% delle foreste attualmente esistenti. Questo, oltre a determinare una significativa perdita di biodiversità, riduce drasticamente la capacità degli ecosistemi di immagazzinare carbonio, contribuendo ulteriormente al cambiamento climatico. In questo senso, un passo avanti verso una maggiore trasparenza e tutela dell’ambiente riguarda il Regolamento anti-deforestazione (EUDR), che obbliga le aziende a verificare ogni fase della produzione, aprendo la strada a un consumo più consapevole. Un secondo aspetto riguarda il dispendio di energia necessaria sia per l’irrigazione che per l’essicazione. Anche qui, l’Uganda si distingue in termini di sostenibilità grazie alle condizioni favorevoli del territorio: i terreni si auto-irrigano grazie all’umidità naturale e alla regolarità delle piogge, che spesso si possono anche prevedere con un certo anticipo, eliminando la necessità di costosi sistemi di irrigazione e riducendo drasticamente il consumo di energia associato a questa fase della coltivazione. Inoltre, non bisogna tralasciare l’aspetto della fertilizzazione.

Se in altre nazioni, come Brasile o Colombia, vengono spesso impiegati fertilizzanti chimici in maniera massiccia, che contribuiscono all’inquinamento del suolo e delle falde acquifere, in Uganda la situazione è diversa, soprattutto per ragioni economiche. La maggior parte dei piccoli agricoltori, infatti, non può permettersi tali prodotti: questo, unito alla prossimità dei terreni con le abitazioni dei farmer, ha portato a un uso prevalente di fertilizzanti naturali, come compost, foglie e scarti organici. Questo svantaggio economico è invece un vantaggio in termini di sostenibilità, ma richiede comunque attenzione per evitare un eventuale degrado del suolo a causa di un uso improprio dei prodotti usati come concime. Anche il trasporto, infine, incide sull’impronta ambientale del caffè, aumentando le emissioni di carbonio. I Paesi di produzione sono sempre più lontani rispetto alle aree di maggior consumo (che sia l’Europa, l’Asia o il Nord America), e il trasferimento dei chicchi inevitabilmente incide sull’impronta ambientale. Tuttavia, poiché nella maggior parte dei casi ciò avviene via mare, con le scorte accumulate che viaggiano per giorni in grossi container, ma in relativamente poche navi, l’impatto è significativamente ridotto rispetto ad altre materie prime e soluzioni”.

Quanto è sostenibile oggi la catena dal punto di vista economico?

“Dal punto di vista economico, ci sono ancora molti progressi da fare per alimentare una filiera più sostenibile a livello globale. Da un lato, in Uganda sono state introdotte misure come la fissazione di un prezzo minimo per l’acquisto del caffè, pensate per agevolare gli agricoltori. Tuttavia, questo prezzo spesso non è sufficiente, perché spesso è appena sufficiente per coprire i costi di produzione o sostenere debiti contratti dagli agricoltori stessi. Lungo la filiera, poi, ogni intermediario aggiunge costi che riducono ulteriormente i margini per i coltivatori. Di fatto, i farmer ricevono solo una piccola percentuale del valore finale del caffè, e così facendo sono costretti a vivere in condizioni precarie. Inoltre, la volatilità dei prezzi sul mercato globale rende difficile pianificare e investire in tecnologie o pratiche più efficienti. Da qui deriva quello che è l’obiettivo principale con cui ho fondato MDL: la volontà di disintermediare la filiera e restituire ai farmer compensi adeguati che valorizzino il loro lavoro, attraverso l’acquisto diretto di materie prime da comunità locali in Africa e la vendita in Italia. Un ulteriore limite è rappresentato dall’accesso ai mercati premium, come quello dello specialty coffee. Nonostante l’elevata qualità del caffè ugandese, molti produttori non riescono a sfruttare appieno il valore aggiunto di questi mercati per la mancanza di certificazioni adeguate o competenze di marketing. Non mancano, però, iniziative positive, come i programmi di commercio equo e solidale, le certificazioni biologiche e i progetti di sostenibilità, che stanno migliorando le condizioni economiche dei produttori. Tuttavia, questi strumenti sono ancora troppo poco diffusi per risolvere il problema strutturale di una filiera iniqua”.



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