L’Europa condannata a morte dal veleno americano

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Ora che la diga antifascista in Germania è crollata nella maniera più infame con la convergenza dei voti della Cdu-Csu e dell’Afd (che non a caso parla di «giornata storica») sulla demolizione di una cruciale conquista di civiltà, quale è il diritto di asilo, converrà fare il punto su che cosa attende l’Europa se a fine febbraio gli elettori tedeschi non riusciranno a mettere un freno alla rinascita del nazionalismo tedesco. Nonché su quali magnifiche occasioni si offrono ai nuovi padroni della politica americana.

Non serviva attendere Donald Trump per scoprire l’ostilità di fondo e l’insofferenza degli Stati uniti nei confronti dell’Unione europea, cresciuta costantemente dopo la fine della guerra fredda e ancor più con l’uscita dall’Unione del più atlantico dei suoi componenti: il Regno unito. Un crescendo al quale Biden non si è del resto sottratto.

La guerra in Ucraina ha poi finito di indebolire l’Europa, precludendole quel rapporto con l’Est che le è storicamente e geograficamente vitale, e non solo come fornitore di energia a basso costo. Di fatto, per l’Europa, e soprattutto per la Germania che ne è stata l’alfiere e il principale beneficiario, ogni possibilità di Ostpolitik è venuta a cadere, essendo le pulsioni neozariste di Putin assai meno trattabili del più prevedibile razionalismo sovietico e i paesi dell’est scottati dalla ruvida egemonia tedesca del dopo ’89.

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Sul confine orientale la parola è passata dai commerci alla Nato e a una logica di potenza militare in proporzione tale da sovrastare e distorcere l’idea stessa che l’Europa si era fatta di sé dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ne risulta accresciuto il potere di ricatto americano sulle scelte geoeconomiche di un’Unione europea a rischio di isolamento. Basti pensare, per non farsi troppe illusioni sul futuro, al fallimento dell’accordo sugli investimenti con la Cina del 2020.

Trump non fa altro che perpetuare con lo stile ruvido e il piglio nazionalista che gli sono propri una politica antieuropea che si è costruita nel tempo a partire dal 1992. Dopo quella data nessun presidente americano si sarebbe più sognato di proclamare al mondo «ich bin ein Berliner», come aveva fatto Kennedy nel celebre discorso del 1963.

Gli esponenti istituzionali dell’Unione europea, ipnotizzati dal serpente che si è insediato alla Casa bianca, reagiscono con blandizie e trattenuto orgoglio ma soprattutto senza avvedersi che gli Stati uniti sono cambiati assai meno di quanto abbia fatto l’Europa, né di quanto poco la Ue possa paragonarsi ad attori globali come gli Usa, la Russia o la Cina in cui la forza economica è supportata da un potere politico unitario prima ancora che militare.

Gli europei hanno fallito in pieno il processo di costruzione di una dimensione politica degna di questo nome, sostituendola con uno stucchevole e ipocrita richiamo ai valori che nessuno rispetta più. Basti pensare al conto in cui è tenuta la Corte penale internazionale dell’Aia. O con farraginose e deboli procedure di infrazione contro i reprobi elusori dello stato di diritto. Voler compensare e sostituire con il riarmo europeo l’assenza di una Europa politica è stato tanto illusorio quanto pericoloso.

Oltre alla Brexit, un gran numero di paesi europei sono oggi governati direttamente o fortemente condizionati da forze nazionaliste. Al vecchio nucleo nazionalista ed euroscettico dell’Est formato da Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca (essendo la Polonia passata per il momento al campo liberale ma non troppo) si aggiungono l’Olanda, la Svezia, l’Austria e naturalmente l’Italia. In Francia, e soprattutto in Germania, il peso dell’estrema destra è cresciuto enormemente fino a far cadere il rifiuto di ogni forma di collaborazione con i partiti che la rappresentano da parte delle formazioni centriste, in primo luogo la Cdu-Csu, che fanno capo al partito popolare europeo.

L’espansione delle destre radicali in molti paesi del Vecchio continente ha comportato il loro passaggio dall’originario euroscetticismo di principio all’ambizione di costruire, su basi ideologiche xenofobe e autoritarie, una politica europea riassunta nella formula contraddittoria di «Europa delle nazioni». È del tutto evidente come questa impostazione svuoti la politica europea di ogni contenuto positivo di democrazia e solidarietà sociale (riservato al buon cuore di stati nazionali che ne hanno assai poco), ma soprattutto apra la strada alla pratica delle relazioni bilaterali. Gli Stati uniti avrebbero allora buon gioco nel trattare con un’Europa ideologicamente affine, politicamente disarticolata nelle singole nazioni in cerca di favori, vantaggi e posizioni di privilegio, non di rado in contraddizione tra loro.

Da questo quadro a tinte fosche discende una indicazione politica piuttosto chiara ma del tutto disattesa: se l’Unione europea avesse inteso conservare un qualche peso autonomo nelle sue scelte economiche e sociali interne e sullo scacchiere internazionale, allora avrebbe dovuto contrapporsi in maniera decisa all’onda nera della reazione nazionalista che monta nel suo seno e che raccoglie i più diretti interlocutori europei di Donald Trump.

Praticamente il contrario di quello slittamento verso destra che la Commissione guidata da Ursula von der Leyen aveva messo in movimento e che la Cdu di Friedrich Merz porta oggi a compimento sdoganando l’ultradestra; il contrario dei governi francesi in sella per grazia del Rassemblement national o della competizione\complicità dei democristiani tedeschi con il nazionalismo xenofobo di Afd. Un partito che, non a caso, è oggetto dell’entusiastico appoggio di Elon Musk al quale non sfugge che proprio in Germania si gioca la partita più decisiva.

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È a questo conflitto interno che l’europeismo democratico avrebbe dovuto prepararsi senza ambiguità. Pur dovendo scontare il peso dei danni inflitti alla società europea dall’europeismo ordoliberale e finanziario con il quale si è sovente incrociato e compromesso. Altrimenti prevarrà quella «preparazione alla guerra» del Vecchio continente, strombazzata dalla vicepresidente della Commissione Kaja Kallas, che occuperà con il riarmo e le tonalità emotive che lo circondano lo spazio lasciato vuoto dal tramonto dell’Europa politica e probabilmente anche di quella democratica. Con il plauso entusiasta dell’estrema destra e dei suoi sponsor americani.



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