Meloni e il processo (quasi) impossibile. Nordio il ministro più a rischio

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La leader, Piantedosi, Mantovano e il guardasigilli difesi da Bongiorno. In caso di mancata archiviazione, sono le camere a dare l’ok al processo 

Nell’intricata vicenda giudiziaria che ha investito il governo dopo la liberazione e l’espulsione del generale libico Almasri, è la stessa Giorgia Meloni a scindere i livelli.

Anzitutto c’è quello politico. A palazzo Chigi l’assetto è quello del gabinetto di guerra permanente e la strada comunicativa imboccata è la stessa scelta da Matteo Salvini per il processo Open Arms, che non a caso è stato citato dalla premier.

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Di qui la decisione di mantenere intranea anche la difesa: a tutelare gli interessi di tutti gli indagati sarà, anche in questo caso, la senatrice leghista Giulia Bongiorno, avvocata che ha ottenuto l’assoluzione del vicepremier. Scelta che «sottolinea la compattezza del governo», viene spiegato da palazzo Chigi.

Ma anche garanzia di sapiente gestione non solo sul piano giudiziario ma soprattutto su quello comunicativo, in scia con la volontà di Meloni di costruire un teorema politico intorno all’iniziativa della procura di Roma. Sarà Bongiorno dunque a studiare il caso e a valutare come muoversi, visto che la procedura davanti al tribunale dei ministri prevede che «i soggetti interessati possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati». Sull’informativa al parlamento, invece, la maggioranza prende tempo: tutto rimandato alla prossima settimana.

Sotto il profilo giudiziario l’interrogativo con cui è alle prese la ristretta cerchia intorno a Meloni, al sottosegretario Alfredo Mantovano e ai ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi è se le accuse abbiano un qualche fondamento.

Due sono le ipotesi di reato in concorso nella denuncia dell’avvocato Luigi Li Gotti, che la procura di Roma ha riportato pedissequamente nella comunicazione senza prima indagarle, come prevede la norma: favoreggiamento e peculato per la scarcerazione e il rimpatrio di Almasri, su cui gravava un mandato di arresto europeo con l’accusa di crimini contro l’umanità.

La posizione di Nordio

Secondo fonti di maggioranza, che si incrociano a quelle giuridiche, la posizione più fragile sarebbe quella del Guardasigilli Nordio. Sul suo dicastero, infatti, grava la responsabilità delle 48 ore di disordine – dall’arresto del 19 gennaio all’espulsione del 21 – sulla gestione di Almasri e l’omissione dell’atto che avrebbe permesso la consegna del libico alla Corte penale internazionale.

Qualche dubbio, però, starebbe sorgendo sul reato ipotizzato. Nordio, secondo le ricostruzioni delle ultime ore, non è intervenuto in modo tempestivo come invece sarebbe stato obbligato a fare ai sensi di legge. L’arresto del libico non è stato convalidato dalla Corte d’appello di Roma perché, prima che la Digos lo effettuasse, non era stato avvertito come da procedura il ministro della Giustizia. Secondo quanto sostenuto dalla procura di Roma, tuttavia, il ministro aveva ricevuto tempestiva comunicazione dell’arresto il 20 gennaio ma «non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito».

Inoltre anche la Cpi ha comunicato di aver inviato la richiesta di arresto ai «canali designati» di sei stati, tra cui l’Italia. In altri termini, Nordio non ha sanato l’irregolarità procedurale quando poteva farlo e così Almasri è stato rilasciato. Dunque l’ipotesi di reato potrebbe essere l’omissione d’atti d’ufficio.

Anche la posizione di Piantedosi andrà valutata con attenzione. Suo è l’atto di espulsione, come ha spiegato lo stesso ministro, «per motivi di sicurezza dello stato». Su questo fatto si fonda l’accusa di peculato, con un dettaglio in più: a differenza di come avviene di solito, Almasri non è stato rimpatriato con semplice volo di stato, ma su un Falcon 900 operato dalla Cai, azienda legata ai servizi segreti in capo a Mantovano, di qui la sua aggiunta al novero degli indagati. Tuttavia, sempre secondo l’analisi di fonti che stanno approfondendo la questione, proprio la ragion di stato potrebbe far venire meno l’ipotesi di reato.

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Infine, la posizione più distante alla gestione operativa è quella di Meloni, che tuttavia era informata e, pur avendo astratto obbligo giuridico di agire, non lo ha fatto per ragioni che andranno chiarite, almeno politicamente.

Pur approfondendo i cavilli legali, va tenuto ben presente che la decisione finale sulla celebrazione del processo ai ministri spetterà al parlamento. La procedura è disciplinata dalla legge costituzionale del 1989 che istituisce il tribunale dei ministri, collegio composto da tre membri effettivi e tre supplenti, estratti a sorte tra tutti i magistrati in servizio nei tribunali del distretto.

Questo collegio, ora, ha 90 giorni per compiere indagini preliminari, sentire il pm e valutare se disporre l’archiviazione o trasmettere gli atti con relazione motivata al procuratore della Repubblica, il quale li rimetterà alle camere. Questo è il passaggio chiave: spetterà al parlamento a solida maggioranza di centrodestra votare se si celebrerà il processo o se gli inquisiti abbiano «agito per la tutela di un interesse dello Stato» o «un preminente interesse pubblico».

Proprio alla luce di questo, la procura di Roma ha mal padroneggiato il caso. Far precedere l’invio dell’atto scritto a palazzo Chigi da una telefonata privata alla premier e magari da una comunicazione alla stampa sulla natura obbligatoria dell’atto avrebbe forse impedito che Meloni lo rendesse pubblico alle sue condizioni, chiamandolo, impropriamente, «avviso di garanzia» (e il pensiero va subito a Silvio Berlusconi). Tardiva, infatti, è arrivata la precisazione dell’Anm (nel giorno del rinnovo dei suoi membri) sul fatto che si trattasse invece di una comunicazione di altra natura. Così, ormai i binari per l’ennesimo scontro tra toghe e governo sono tracciati.

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