Rai-Benigni, trattativa per uno show in prima serata. Ultimo Cda a Mazzini

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Un po’ di mestizia c’è, perché il luogo – Viale Mazzini 14, sede di Mamma Rai – è familiare e simbolico, ma c’è anche il pensiero gioioso che dopo l’Esodo ci sarà il Grande Ritorno nel 2030. Questo mix sentimentale accomuna i 1300 dirigenti, funzionari e impiegati Rai che entro domani – poi verranno chiuse le luci in gran parte del palazzo del cavallo morente e anche i riscaldamenti – saranno tutti fuori da questa culla che ha ospitato la vita di tanti per tanti decenni ma l’amianto suggerisce di sloggiare e poi si tornerà quando saranno finiti i lavori di ristrutturazione dell’edificio. C’è chi in queste ore di trasloco ha coniato questa immagine ovviamente auto-ironica: «La nostra evacuazione è un misto tra la fuga degli americani da Saigon e l’uscita di quelli della Lehman Brothers con gli scatoloni tra le mani».

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La merce più richiesta in questi giorni, oltre agli scatoloni, sono quelle buste plastificate e rigide dei supermercati, modello Ikea, dove entra qualsiasi cosa: le foto dei bimbi, le piantine, i libri che si finge di aver letto, la collezione di accendini o di aeroplanini, gli attestati veri o presunti di grande professionalità, le immagini in compagnia dei vip (io c’ho il Papa, e tu? Io c’ho Mara Venier e tu neppure Umberto Tozzi o un sottosegretario?) e via con altre chincaglierie. Da piazzare nelle sedi temporanee (l’ad, il dg e i vertici andranno per ora nel palazzo della radio a via Asiago cioè sempre a Prati e il trasloco del Settimo Piano si farà durante il festival di Sanremo) che sono nell’edificio di via Teulada e in vari appartamenti aziendali sparsi nella zona. Il primo febbraio tutti via, ma i nuovi spazi – in attesa che il palazzo in affitto in zona Eur a via Alessandro Severo sarà pronto dopo l’estate – saranno molto ridotti. Dunque smart working e prenotazione dei posti in presenza: la mia scrivania? Ah, quando c’erano ancora le scrivanie personali…

E comunque in un’atmosfera così, lasciamo per tornare al più presto, ieri s’è svolto intorno al tavolone lungo sette metri e largo due, l’ultimo Cda ambientato a viale Mazzini. I prossimi si terranno a via Asiago, e poi all’Eur e infine, tra cinque anni sperando che siano davvero cinque, di nuovo qui a Mazzini. E proprio in questa riunione del Cda, dedicata al bilancio aziendale, è accaduto qualcosa di politicamente importante. È successo questo: il presidente pro-tempore, il leghista Antonio Marano (ma quando arriverà Simona Agnes in quella poltrona top? Boh) si è astenuto sul budget. E guai a leggere la cosa come un fatto tecnico. Rientra invece nella guerra che il Carroccio (tendenza Morelli, plenipotenziario leghista in materia televisiva) sta scatenando da tempo a FdI, che esprime l’ad Giampaolo Rossi, perché oltre a tutte le poltrone aziendali che i salvinisti hanno già ne vogliono altre (il Prime Time o il Day Time per esempio) ma i meloniani resistono. Con il voto di ieri però Marano, assicurano quelli che sanno le cose, avrebbe certificato l’irrilevanza della Lega nella nuova governance di Mazzini (anzi di ex Mazzini) perché in Cda tutti, tranne Di Pietro che è il rappresentante dei dipendenti Rai, hanno votato a favore del bilancio, perfino i consiglieri in quota sinistra (il rossoverde Natale e il contiano Di Majo). La mossa del leghista presidente pro-tempore avrebbe insomma finito per fortificare il peso dell’attuale ad dentro l’azienda.

ROBERTACCIO

E dunque si va via, ma l’orgoglio aziendale resta. E per molti, non solo qui dentro ma soprattutto fuori, ha un nome. Il nome di Roberto Benigni. Che cosa c’entra il comico toscano? Tra uno scatolone e l’altro, ferve la trattativa per portare Benigni a Sanremo come anteprima, per poi cucirgli addosso – ma quanto soldi vuole Lucio Presta? – uno, due o tre super-eventi in prima serata nei prossimi mesi di tributo e di consacrazione, ammesso che ne abbia ancora bisogno, come star del nazional-popolare intelligente. Ma soprattutto, la carta Benigni, che è concreta (dopo la lettura della Costituzione, del Cantico dei Cantici e dei Dante che cosa s’inventerà?), porta tutte le convenienze: aiuta probabilmente lo share, già dalla sua probabile esibizione a Sanremo e poi anche dopo, e dimostrerebbe che non esiste TeleMeloni (Robertaccio è di sinistra e si sa quanto ha battagliato con Berlusconi) e che tutte le accuse di censura al servizio pubblico sono esagerate (Benigni non è censurabile e allo stesso tempo è un uomo di mondo). E se negli ambienti politico-televisivi di sinistra già si contesta la scelta, ancora tutta da materializzare, dicendo «la destra in Rai vuole Benigni come foglia di fico», ai vertici aziendali piacerebbe assai fare il colpaccio.

Intanto, però, c’è da andare via e poi da tornare a Mazzini. In un palazzo che sarà nuovo, digitale e sostenibile, come vuole essere la Rai. Mission not impossible.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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