La parola “ritorno” moltiplica il dolore e carica di molteplici significati, inevitabilmente opposti, quindici mesi di attesa e di guerra. Di decine di migliaia di morti. Non c’è più la grande tavola che è stata allestita in piazza degli ostaggi, a Tel Aviv, proprio di fronte al museo. Era la tavola del ritorno, quando ancora si sperava che gli ostaggi, tutti, sarebbero tornati per Pessach, Pasqua, il passaggio verso il ritorno nella Terra di Israele.
Il destino incerto degli ostaggi
Ogni posto della tavola era segnato da un cartello con il volto e l’età dell’ostaggio, e c’era in fondo un angolo riservato ai più piccoli, i fratellini Bibas, i bimbi dai capelli rossi catturati da un’ultima immagine mentre i terroristi li portavano via, in braccio alla loro mamma. Kfir aveva solo 10 mesi: ora avrebbe due anni. Avrebbe, il condizionale è terribile perché il suo nome insieme al fratellino Ariel, che aveva quattro anni, e alla mamma, Shiri, sarebbero nella lista segreta di “ostaggi non più in vita” consegnata da Hamas ai servizi israeliani.
«Non parlatene per favore, almeno finché non sapremo nulla di sicuro», dichiara a Tempi una zia nel kibbutz di Nir Oz dove la famiglia è stata sequestrata. Il padre Yarden comparve in un video diffuso da Hamas in cui accusava il governo di Netanyahu di non aver fatto abbastanza, un filmato registrato dopo che all’uomo era stato detto che la moglie e i figli erano morti in un bombardamento. Propaganda, si disse, nutrita di messaggi indotti, lo strumento più crudele per usare gli ostaggi come un’arma di guerra, facendo strage dei cuori dopo aver fatto strage dei corpi. Dosando con crudeltà il diritto al ritorno, dei morti come dei vivi.
«Come posso non sperare?»
I ritratti degli ostaggi ora sono appesi a un albero, oscillano al vento mentre suona un pianoforte nella piazza: vicino ai volti dei bimbi abbracciati da un macaco verde di peluche c’è il viso dell’ostaggio più anziano, Oded Lifshitz, 86 anni: sua moglie Yochved è stata la prima degli ostaggi a essere liberata. La incontriamo nella piazza. Cammina senza tradire l’emozione che la sconquassa, il volto teso, anche il nome di suo marito sarebbe nella lista che nessuno vuole confermare.
«In questi giorni stanno liberando gli ostaggi tra mille smentite e trattative, spero che la lista sia solo uno strumento di pressione», dice a Tempi. «Come posso non sperare? E al contrario come posso sperare? Sono qui per condividere con le altre famiglie i momenti in cui verranno liberati gli ostaggi, centellinati in un baratto che mai avremmo immaginato. Alcuni vedranno tornare vivi i propri cari, alcuni li potranno onorare nella sepoltura, la shivà, i giorni del lutto. Ma tanti altri non sapranno nulla. Condividiamo lo stesso dolore, la stessa ansia, la stessa paura, la stessa speranza».
L’interminabile fila di sfollati a Gaza
La consegna dei corpi è sempre stata nella storia umana una legge non scritta ma rispettata. Ora no. Ora il ritorno dei vivi come dei morti è una merce di scambio. Quello che da sempre l’umanità ha riconosciuto come il desiderio più umano è un ricatto. La parola ritorno fonda i popoli di questa terra. Israele è nata dalla Aliya, il ritorno dalla diaspora. Aliya bet, ritorno a casa, perché per ogni ebreo nel mondo questa è casa.
Ed è casa, Beit (praticamente la stessa parola in arabo e in ebraico) per i palestinesi: a Gaza sono centinaia di migliaia le persone, adulti, uomini e donne, anziani, bambini sfollati che vogliono ritornare nelle proprie case, non sapendo però se si trovano in piedi o se ne resta solo un cumulo di macerie. Tutti cercano il ritorno: un lento cammino in salita, ascesa (questo vuol dire etimologicamente Aliya).
In arabo il ritorno assimila la terra della vita e la terra futura: anche la morte è un ritorno a casa. Una salita. C’è sempre qualcosa che ricorda l’origine e la nostalgia di una casa, di un luogo dove onorare il destino in pace, quando si parla di questa terra.
«Stiamo tornando», racconta al telefono Walid, che con la sua famiglia sta superando il corridoio Netrazim, che divide la Striscia. «Tornando a casa», ripete sulla linea telefonica che prende solo a tratti. A Gaza camminano in una interminabile fila gli sfollati. Non sono ancora tornati gli israeliani fuggiti nel Nord della Galilea, stanno cercando di tornare i libanesi del Sud. Ma l’esercito israeliano è ancora oltre il confine, sa che Hezbollah non si è ritirato e che l’esercito regolare di Beirut non ha il controllo della situazione.
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Nostalgia e dolore
Si spara e ci sono ancora morti mentre i profughi si dirigono a piedi, in auto sfasciate, su carretti trainati da asinelli verso le città fantasma devastate dai bombardamenti: Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano cantano vittoria ma per i palestinesi è una nuova Naqba, una catastrofe, come nel ’48. Quando un milione di arabi se ne andarono o furono cacciati da Gerusalemme est e dai villaggi vicini, portando con sé le chiavi delle case, divenute il simbolo della volontà del ritorno. C’è, di sicuro, solo un fragile cessate il fuoco, una tregua prorogata di poche settimane, una comunità internazionale che fatica a trovare una soluzione stabile.
Venti giorni ancora per il Libano e specularmente per l’alta Galilea; non si sa quanto per Gaza, perché la seconda fase delle trattative non è iniziata e non si delinea il futuro della Striscia. Ostaggi, sfollati, profughi, rifugiati aspettano, morsi da un dolore che ha una parola precisa: nostalgia. L’unione di due termini greci: nostos, ritorno, e algos, dolore. Il dolore del ritorno. Quaranta anni fa il sindaco ortodosso di Betlemme, Elias Frej, mi disse: «I giovani cristiani stanno emigrando, temo il momento in cui non ci saranno più cristiani nella Terra dove è nato Gesù e non potranno tornare».
È l’appello che i patriarchi delle chiese cristiane ripetono: «Non emigrate!». Ma resta la domanda: quanti nel mondo comprendono l’importanza della presenza dei cristiani in Terra Santa? In quarant’anni anni si è parlato solo di guerra e di spartizioni di territorio, di terrorismo e degli interessi dei potenti. Di trattati, siglati e disattesi. Forse la pace attende qualcosa di più: il riconoscimento del diritto, in pace, al ritorno. Un ritorno basato non sulle armi e sulla volontà di negare l’altro: nel Giubileo del Duemila san Giovanni Paolo II disse che non ci sarebbe stata pace senza perdono. Un perdono che non può avvenire senza il riconoscimento, la compassione, patire insieme la nostalgia, vivere la nostalgia dell’altro come propria, il dolore per il ritorno a casa.
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