Deportazioni show, clima di terrore in Guatemala. «Ma il bullismo di Trump non fermerà mai le migrazioni»

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«Qui è iniziato subito lo show delle deportazioni di Trump in un clima di terrore che non risparmia nessuno, nemmeno noi delle organizzazioni locali». Francisco Pellizzari, padre scalabriniano e direttore della Casa del Migrante di Città del Guatemala, parla al telefono con una concitazione inusuale per lui, abituato a infondere calma e speranza a persone segnate da violenze fisiche e psicologiche lungo il percorso migratorio. Da anni, la sua casa è un punto di riferimento per migliaia di persone dirette verso il nord America e guatemaltechi deportati dagli Stati uniti, che spesso cercano un letto e un pasto caldo al loro ritorno in patria.

Dal 20 gennaio, giorno dell’insediamento di Trump, il sistema delle deportazioni è cambiato. Non tanto nei numeri – il flusso di rimpatri era già consistente – ma nel metodo: disordinato, militarizzato, spietato nei confronti delle persone e incurante dei rapporti internazionali. Di fatto, il presidente Trump si è affrettato a dare corpo ai suoi slogan e a mandare in tilt tutto il sistema di deportazione.

«Il 24 gennaio sono arrivati due voli militari non programmati, uno alle due di notte e l’altro alle sette del mattino – spiega Pellizzari – Hanno letteralmente scaricato nelle strade di Città del Guatemala 79 persone, senza nessun riguardo per le loro vite».
Quella notte, padre Pellizzari e lo staff della Casa del Migrante sono stati buttati giù dal letto per assistere i deportati alle prime luci dell’alba. L’allarme è arrivato dall’Istituto di Migrazione guatemalteco, colto di sorpresa dalla chiamata dell’Ambasciata statunitense all’ultimo minuto. «È l’ennesima dimostrazione – continua il sacerdote – del bullismo di Trump. Deportare a qualsiasi ora del giorno e della notte è stata una prova di forza contro le istituzioni guatemalteche, quasi a voler dire: “Ehi, qui comandiamo noi!”».

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Così si apre il secondo mandato di Trump visto dal Guatemala, uno dei principali paesi di origine dei migranti che vivono irregolarmente negli Stati uniti, dopo il Messico. Quello che è successo nel piccolo stato centroamericano lascia presagire l’imminente mano dura di Trump in America Latina nei prossimi mesi.

Nell’ultimo anno gli Stati uniti hanno deportato in Guatemala, paese di 17milioni di persone, circa 62mila migranti irregolari con una media di circa mille rimpatri forzati a settimana. Ogni deportazione inizia con un arresto, dovuto o a una infrazione della legge, come per esempio una sanzione automobilistica, oppure a una retata in un bar o luogo pubblico da parte della polizia migratoria statunitense. Comprovata l’assenza del permesso di soggiorno, la persona viene trasferita a un centro di detenzione per un periodo che può variare dalle poche settimane ad alcuni anni, a seconda della situazione migratoria e della fedina penale di ognuno. Da lì, viene trasferita in gruppo con altri detenuti verso gli aeroporti da cui partono gli aerei di rimpatrio.

Le deportazioni, allo stesso modo di quelle effettuate anche sotto l’amministrazione Biden e Obama, avvengono di norma attraverso voli charter da 100 posti, o di linea. L’utilizzo di aerei militari, così come l’assenza di programmazione, è invece una prerogativa dell’inizio della nuova era Trump. Normalmente, infatti, i rimpatri sono coordinati tra le Ambasciate Usa e gli organismi migratori dei paesi di ricezione. Prima di salire a bordo, i migranti vengono ammanettati mani e piedi, una misura punitiva e umiliante che viene revocata solo quando il volo entra nello spazio aereo del Paese di destinazione. Una prassi in essere da anni e che non risparmia nessuno, nemmeno chi, come nella maggioranza dei casi, oltre alla permanenza irregolare, non ha commesso alcun reato.

Nonostante le promesse di Trump di raddoppiare i voli e l’immagine dei migranti incatenati diffusa dalla Casa Bianca su X facciano pensare a folle di deportati, i numeri per il momento raccontano un’altra storia. «Nella prima settimana di governo sono arrivati solo cinque voli ordinari e due militari straordinari, contro i dieci settimanali dell’ultimo anno – spiega Pelizzari -. Tuttavia quella foto, che non sapremo mai se è reale o meno, è stata funzionale alla retorica trumpiana per comunicare al mondo la sua potenza schiacciante e generare panico».

La maggior parte dei paesi latinoamericani, con l’eccezione della Colombia che ha dichiarato il suo disappunto, sopporta in silenzio l’ingerenza degli Stati Uniti e si organizza per accogliere i concittadini rimpatriati. In Messico, la presidentessa Claudia Sheinbaum ha dichiarato che il paese è pronto al reinserimento sociale ed economico dei deportati, anche se al momento i 4mila rimpatri settimanali sono in linea con l’anno precedente. Lo stesso vale per l’Honduras e il Guatemala, con i loro programmi Hermano, vuelve a casa e Plan Retorno al Hogar.

Tra i deportati ci sono quelli che mancano dal proprio paese d’origine da molti anni e, al ritorno, non trovano né famiglia, né una casa, né tantomeno un lavoro. «Alcuni ragazzi sono emigrati negli Stati Uniti con i genitori a 3 anni e vengono deportati a 25 – continua Pellizzari – La deportazione li distrugge psicologicamente. Appena possono, ripartono. Trump sta rendendo la migrazione più pericolosa e violenta, ma di certo non la fermerà mai».



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