di Valerio Palombaro
A quattro anni dal colpo di Stato che il primo febbraio 2021 ha riportato i militari al potere in Myanmar, il Paese asiatico è dilaniato da una guerra civile di cui non si intravede la fine. Un conflitto che ha già causato decine di migliaia di morti, oltre tre milioni e mezzo di sfollati interni e quasi 20 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria. Per fare il punto su questa crisi “invisibile” abbiamo intervistato l’ambasciatore dell’Unione europea a Yangon, Ranieri Sabatucci.
Il Myanmar è dilaniato da una guerra civile che sta causando pesanti sofferenze alla popolazione. Quale è la situazione sul terreno e come giudica gli ultimi sviluppi ?
La crisi è sempre peggiore, sia a livello sociale ed economico, che dal punto di vista della guerra. Il conflitto tra giunta al potere e gruppi ribelli si è allargato: i militari hanno perso tantissimo territorio, sia nel nord-est, ma direi ancora di più nel Rakhine (a ovest), dove quasi tutto il territorio è nelle mani dell’Arakan army, o ancora nelle zone tradizionalmente di origine dei militari, ovvero la fascia centrale del Paese dove ci sono conflitti piuttosto intensi anche tra la maggioranza stessa quindi tra bamar contro bamar (birmani, gruppo etnico largamente predominante).
Vi è quindi una grave situazione di conflittualità estese, praticamente in quasi tutto il Myanmar tranne nelle tre città principali del centro. In tutto il Paese l’economia soffre parecchio, ci sono crisi alimentari in parecchie zone e ormai più della metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Tanta gente va via dal Myanmar per cercare lavoro ed opportunità nei Paesi limitrofi, dove spesso le opportunità e il lavoro esistono ma in condizioni di sfruttamento.
Inoltre c’è stata questa politica sconsiderata di introdurre il servizio di leva obbligatoria. È un disastro perché da una parte i militari al potere non hanno abbastanza soldati per contrastare tutti i gruppi ribelli e dall’altra, con la leva obbligatoria, non riescono a cambiare le cose perché si tratta di tutte persone che non vogliono combattere per cui il risultato anche dal punto di vista militare è pessimo. In più parecchia gente è spaventata dalla leva obbligatoria e si nasconde o scappa nei Paesi limitrofi: il risultato finale è che hanno portato il conflitto all’interno di ogni famiglia birmana che adesso soffre di questa situazione. Solo alcuni giorni fa, inoltre, hanno detto che adesso inizieranno a reclutare pure le donne giovani, in quello che appare un segnale di disperazione e scarsa lungimiranza anche dal punto di vista dell’economia.
Nel nord-est del Paese, con la mediazione della Cina, è stato annunciato un accordo sulla tregua. Si può essere ottimisti su questo passaggio e come si può fare un passo in più per riportare il Myanmar verso una vera pace ?
La tregua annunciata la scorsa settimana al nord-est è frutto della mediazione cinese. Diciamo che i cinesi adesso hanno deciso che è loro interesse stabilizzare il Myanmar perché hanno degli interessi importanti che vogliono tutelare. Stanno cercando di accompagnare le autorità militari in un processo di dialogo con i gruppi ribelli più vicini a loro obbligandoli a entrare in negoziati di pace. E gradualmente vorrebbero allargare questi contatti ad altri gruppi. Si tratta di una strategia che per il momento potrebbe funzionare, ma dall’altra parte i problemi di fondo non vengono risolti: i militari hanno ancora l’intenzione di recuperare i territori persi mentre il gruppo non è disposto ridarglieli. Per cui si è creata una situazione di ambiguità in alcuni centri urbani del nord-est, in particolare nello Stato di Shan dove i militari hanno chiesto come contropartita di riprendere il capoluogo Lashio ma il gruppo etnico non intende accettare. Per questo hanno spostato la discussione su questo punto fra sei mesi e ci troviamo di fronte a una tregua molto fragile.
L’altro asse su cui si muove la mediazione cinese è quello di favorire le elezioni entro fine 2025, anche se queste non saranno mai particolarmente credibili o rappresentative: le autorità militari non controllano ampie parti del Paese, per cui in oltre il 60 per cento dei territori non si potranno svolgere le operazioni di voto; inoltre il partito che ha sempre vinto le elezioni non può parteciparvi. Pechino punta comunque su questo processo di stabilizzazione, mentre noi come Unione europea e partner occidentali non troviamo che questa sia una soluzione che porterà ad una vera riconciliazione. La giunta potrebbe annunciare il primo febbraio la data di queste elezioni, ed ha una certa fretta di andare al voto perché l’andamento del conflitto è per loro molto negativo.
Ci sono dei passi avanti riguardo la liberazione degli ostaggi, pensiamo a figure come Aung San Suu Kyi?
Regolarmente, in prossimità di festività importanti, il regime è solito fare delle amnistie. Ma, fino ad ora, in tutte queste amnistie non sono stati liberati prigionieri politici o, se lo erano, erano personaggi non molto influenti o malati gravi per non farli morire in prigione. La giunta militare si trova in una situazione molto complicata e non hanno una soluzione: ma avere nuove elezioni, con il leader che ha sempre stravinto le elezioni che non può partecipare, mina la credibilità. Noi siamo sempre speranzosi che arrivi il lume della ragione che permetta ai militari di capire che bisogna intraprendere un percorso completamente diverso nel quale includere come primo passo la liberazione dei prigionieri politici.
Quanto è difficile per l’Ue aiutare concretamente la popolazione birmana, tenendo d’altra parte la mano dura delle sanzioni?
Bisogna ammettere che l’Ue non è che abbia delle leve enormi in questo Paese, ma cerchiamo di usare quelle che abbiamo. Le sanzioni non ambiscono a costringere i militari a rivedere le loro posizioni, ma sono un segnale del nostro scontento. L’Ue, malgrado tutto, tiene attivo un protocollo commerciale che permette ad esempio le esportazioni dell’industria tessile, in modo che la popolazione birmana possa continuare a lavorare. Cancellare questo protocollo vorrebbe dire mettere in ginocchio gli strati più vulnerabili della popolazione. Parallelamente cerchiamo di promuovere i diritti dei lavoratori. L’Ue stanzia inoltre aiuti umanitari indirizzati a oltre il 50 per cento della popolazione in condizioni di povertà estrema e ai 3 milioni e mezzo di sfollati interni che non hanno più nulla.
Papa Francesco non manca di ricordare il Myanmar nei suoi appelli, e mostra un’attenzione particolare alle minoranze, da quella cristiana ai Rohyngia. Come vivono le minoranze tra repressione del governo e guerra ?
Bisogna dire che l’attuale crisi è più grande e più intensa della precedente. Non esiste un gruppo etnico favorito e la ribellione contro i militari è ormai di tutto il Myanmar. Le minoranze, paradossalmente, hanno una maggiore preparazione ad affrontare le crisi perché lo fanno da 70 anni. Un ulteriore paradosso oggi è che i militari stanno addirittura armando i Rohyngia al fine di creare ancora più caos facendoli combattere con la popolazione buddhista dello stato di Rakhine. Il dramma di questa minoranza, fuggita in massa già nel 2017, con un milione di profughi in Bangladesh, prosegue ancora oggi in modo diverso: è una situazione pericolosissima, in cui vengono armate persone disperate per giustificare il caos. (valerio palombaro)
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