il Primo Levi, più ironico e nascosto, che abbiamo trascurato

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L’atomo di carbonio nelle sue diverse forme allotropiche incarna perfettamente quello che è stato Primo Levi. Non a caso il suo racconto assoluto sul carbonio, all’interno del libro che lo portò a cambiare stato, Il sistema periodico, non è solo il migliore ma, stando ai suoi ricordi, il primo di tutto, l’origine del suo essere scrittore, perché dice di averlo pensato durante la prigionia dei fascisti in valle d’Aosta, quindi in un tempo antecedente alla deportazione che divenne poi imposizione di scrittura e di ricordo. Un peso doppio da scontare sopravvivendo.

Primo Levi fu chimico, partigiano, prigioniero nel campo di sterminio di Auschwitz, sopravvissuto, viaggiatore, scrittore-testimone, scrittore-chimico, scrittore. E come l’atomo di carbonio del suo racconto ebbe diverse strutture, vagò, si trasformò e infine scelse d’essere un punto alla fine delle scale.

E, nonostante tutto, ebbe moltissima ironia (valga come esempio per tutto l’incipit de L’altrui mestiere: «Abito da sempre – con involontarie interruzioni – nella casa in cui sono nato»), tantissima dolcezza (guardate come sopporta le domande stupidissime delle tante interviste televisive, ad oggi non c’è un documentario degno della sua opera) e una mitezza ineguagliabile (mai si fece martire degli errori di Cesare Pavese e Natalia Ginzburg che rifiutarono Se questo è un uomo), si mosse con eleganza tra le mille sventure della sua vita (non a caso Il sistema periodico si apre con moltissima ironia con: «Ibergekumene tsores iz gut tsu dertseyln / È bello raccontare i guai passati»), una esistenza che avrebbe voluto con più avventura conradiana e – in verità – tanta ne ebbe, e che riuscì a non trasformare in un io ossessivo come quello degli scrittori di oggi, il suo io fu spezzettato, riottoso ed esile.

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L’apprezzamento di Roth e Bellow

Se Il sistema periodico si fosse chiamato Le avventure di un chimico ci avrebbe consegnato un ritratto più forte del Primo che si dissemina nelle pagine tra i 21 elementi scelti tra quelli che il russo Dmitrij Ivanovič Mendeleev ordinò in base al peso atomico («il Sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime!»), invece lui si è diluito con grazia, distribuendosi tra gli elementi.

E toccando tutte le sue molteplici possibilità di scrittura – dall’autobiografia al saggio – raggiunse le diverse missioni che si era dato fin dal primo racconto sul carbonio («fantasticavo di scrivere la saga di un atomo di carbonio, per far capire ai popoli la poesia solenne, nota solo ai chimici, della fotosintesi clorofilliana»), voleva raccontare la vita dei chimici: «Sappiamo tutto sui minatori, sui ladri, sui ragazzi di vita, sulle prostitute, ma sui chimici sappiamo pochissimo: nessuno se ne è mai occupato. Eppure l’arte del chimico contiene spunti e stimoli che meriterebbero di essere conosciuti… Ho la tentazione di fare dei racconti proprio sul mio mestiere»; voleva anche dimostrare che come la materia è ordinabile così lo è anche l’intero universo, insomma cercava di opporsi al disordine degli anni vissuti con la sua capacità chimica; voleva raccontare l’invasione fascista nella sua vita; voleva riconoscere la centralità della chimica nella esistenza; e soprattutto voleva finalmente mettere distanza tra il suo essere testimone del Lager e il suo essere definitivamente scrittore come poi si accorsero Philip Roth («l’unicità di Levi consiste nel fatto di essere più il chimico artista che lo scrittore chimico») e Saul Bellow («Il sistema periodico è un libro meravigliosamente puro»). E far scoprire che nel sistema periodico come nella sua vita tutto è essenziale.

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L’ironia

Dirà in moltissime interviste e in tanti scritti: «La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere» e noi potremmo dire che lo è anche la scrittura, e le due cose diventano una sola quando fu costretto a spiegare come mai il racconto sul Cerio – ambientato nel campo di lavoro di Monowitz – non fu incluso in Se questo è un uomo: «Uno dei nomi antichi della chimica, in tedesco, è die Scheidekunst, che vuol dire arte separatoria, da zu scheiden, separare. Ora, ce l’abbiamo un po’ per istinto, noi, di tener separate le cose». E Levi decise di tener fuori la chimica dal libro, e soprattutto un racconto di base allegro, che rappresentava una scanzonatura rispetto all’altezza morale e alla forza di quello che diverrà il libro di e su Auschwitz.

Una scelta da scrittore che usa la scrittura come la chimica. Ma quando ottanta anni fa, il 27 gennaio del 1945, i russi aprirono i cancelli del campo di concentramento, ad uscire oltre al deportato che diventa sopravvissuto Primo Levi, matricola 174517, è il chimico che trent’anni dopo, e quindi esattamente cinquant’anni fa, poi pubblicava Il sistema periodico. Ed è curioso che Levi raccontando il tipo di chimica che viene rappresentata nel libro dica una «chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d’uomo» che potrebbe tranquillamente essere il suo ritratto di uomo, solo, inerme e appiedato che ritrova la misura d’uomo ne La tregua, il libro che racconta il suo conradiano viaggio di ritorno a casa da Auschwitz a Torino attraversando l’Europa nei giorni, poi le settimane e i mesi e infine gli anni dopo la seconda guerra mondiale, il riassetto con i prigionieri, i sopravvissuti, gli sbandati, i vinti e i vincitori del più grande rimescolamento umano del continente europeo.

Facharbeiter: la salvezza

«Dalla materia, un alchimista impara sempre qualcosa», scrive ne Il passa-muri. E senza la chimica forse Primo Levi non si sarebbe salvato da Auschwitz. Durante la selezione dell’ottobre 1944 venne risparmiato perché sul suo cartellino c’era scritto Facharbeiter. «Ero un caso insolito, un lavoratore specializzato».

Un chimico. Che seguiamo nei ventuno racconti ognuno dedicato a un elemento chimico e che si ispirano a momenti della sua esistenza. C’è tutto: la formazione, gli amori mancati, gli esperimenti, il fascismo, la guerra, la prigionia prima dei fascisti e poi dei nazisti, il Lager – con molto distacco – aveva smesso anche di sognarlo, si era emancipato da quell’inferno almeno nella scrittura, e poi la normalità del lavoro di chimico e la straordinarietà d’essere scrittore-scrittore.

Il sistema periodico è un libro compatto, denso e potente pur nella lingua elegante e puntigliosa di Levi che è tutta in contrappunto, un continuo gioco di rimando a partire dall’apertura (Argon) che sembra utilizzare gli avi come elementi primari. Non manca la capacità di mettersi alla prova attraverso l’alpinismo (Ferro) che serve a prendere coscienza della propria condizione di isolato due volte: come estraneo al fascismo – antifascista – e come estraneo alla società italiana – ebreo – nonostante questa seconda condizione di isolamento Levi la racconti come più facile, perché nessuno mai intorno a lui gli fece pesare la cosa, quasi una estraneità alle condizioni dettate dal fascismo (le leggi sulla razza).

Fantozzi e l’aguzzino

C’è anche uno scambio – d’amore e vita – mancato (Fosforo). Infine c’è l’ironia – finissima – che si esplicita nel racconto Uranio, dove anticipa il Paolo Villaggio di Fantozzi con le descrizioni dei Sac (servizio assistenza clienti) e delle scrivanie, dei tic d’azienda e dei rapporti tra capi e sottoposti. E poi c’è Vanadio, elemento scoperto due volte, che ha al centro proprio una scoperta attraverso il ricorrere di un errore. Levi si ritrova a scoprire il problema di una vernice, «sostanza instabile per definizione: infatti, a un certo punto della sua carriera, da liquida deve diventare solida», e poi a scoprire che dietro c’è un Doktor L. Müller che è proprio il Müller che dirigeva il laboratorio ad Auschwitz e che scriveva «naptenat» e non come avrebbe dovuto «naphthenat» come l’altro Müller diceva «beta-Naptylamin» anziché «beta-Naphthylamin». Due semplici lettere ph, naftenato di vanadio.

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Due scoperte, due soluzioni, un unico elemento: il vanadio. Come per l’atomo di carbonio, del racconto che è l’origine di tutto, l’errore si era trascinato, per anni, aveva attraversato il tempo, diventando un messaggio tra due persone, l’unica capace di decifrarlo, e quella che lo commetteva e continua a commettere.

Quasi che Levi fosse chiamato a distillare l’errore. Non a caso nel Sistema periodico c’è scritto: «Distillare è bello». Perché la realtà non giace mai su un piano solo. Ma è molteplice, come lo era Primo Levi, che non è mai stato uno scrittore a una dimensione, quella del testimone, ma come insegna la biografia del carbonio è stato, è e sarà «l’elemento chiave della sostanza vivente», anche se il suo ingresso nel mondo vivo ogni volta non sarà mai agevole.

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