Quel falso sorriso da venditore porta a porta di incubi suscita risposte polarizzate in Africa. C’è chi lo benedice e s’inchina al suo ritorno. E chi teme l’uomo che fattura la paura e la carica eversiva delle sue azioni (o disattenzioni) con incorporati effetti devastanti per il continente.
Non si può negare che l’elezione di Donald Trump abbia destato una sorta di fascinazione in una parte (consistente) degli africani. Forse perché incarna l’uomo forte. Che fa meno prediche su temi come la democrazia e i diritti umani. Ed è più pragmatico. Non si capiscono altrimenti le aperture riecheggiate da diversi angoli del continente per la sua elezione alla Casa Bianca.
C’è chi è convinto che la sua politica energetica – che allenta le restrizioni all’industria dei combustibili fossili – possa portare benefici a chi non ha mai smesso di trivellare (o di far trivellare) la sua terra o di bucare le profondità degli oceani.
C’è chi – come i movimenti separatisti – è galvanizzato dall’eventuale riconoscimento trumpiano dell’indipendenza del Somaliland dalla Somalia. O chi dà credito alle parole del segretario di stato Marco Rubio che oltre a preferire il Marocco all’Algeria (di fatto, un invito a un esponenziale riarmo reciproco) ha espresso un interesse particolare per i separatisti anglofoni del Camerun. Senza preoccuparsi del rischio di ridurre il continente a un coacervo di piccole o grandi enclave.
E c’è pure chi vede nell’oltranzismo religioso (si fa per dire) del tycoon la giustificazione a politiche omofobe adottate da una lista lunga di paesi africani.
Ma i timori destati dall’arrivo nello studio ovale del “presidente di ritorno” superano gli entusiasmi. La valanga di primi provvedimenti che ha adottato rappresenta una minaccia concreta per molti africani. Trump ha sospeso l’erogazione di tutti gli aiuti allo sviluppo esteri degli Stati Uniti. Washington è il principale donatore, con circa un terzo dei 48 miliardi di dollari distribuito nel 2021 destinati all’Africa subsahariana.
Già che c’era ha deciso di far uscire il suo paese dall’Organizzazione mondiale della sanità. Scelta che lascia l’Africa, già alle prese con sfide sanitarie significative, in una posizione ancora più precaria. Feroce critico del cambiamento climatico, ha ordinato di staccare la spina anche all’Accordo di Parigi. Gli Stati Uniti sono responsabili del 14% delle emissioni di carbonio nel mondo e sono il secondo maggior “emettitore” di Co² a livello globale dopo la Cina. L’Africa della siccità o delle inondazioni ringrazia.
Poi c’è tutto il capitolo dazi e tariffe doganali che Trump vuole imporre ai beni che arrivano da oltre confine. Che impatto avrà sull’economia africana? Nel 2025 scadrà il trattato di libero scambio (Agoa) degli Usa con una trentina di paesi africani. Verrà rinnovato? Quali paesi saranno a rischio?
A tremare è il Sudafrica. Un anno fa alcuni membri repubblicani della Commissione per gli affari esteri della Camera hanno votato a favore di una legge che richiede una revisione dei legami tra Washington e Pretoria. Tra i criteri di ammissibilità all’Agoa c’è che i potenziali beneficiari «non si impegnino in attività che compromettano la sicurezza nazionale o gli interessi della politica estera degli Stati Uniti».
Il Sudafrica – questa l’accusa – è il maggior beneficiario dell’Agoa e di molti programmi americani nonostante la sua vicinanza a Russia, Cina e Iran e il suo ruolo nel guidare il caso “genocidio” contro Israele presso la Corte internazionali di giustizia.
Tra i repubblicani che hanno chiesto la revisione dei legami c’è Walter Waltz, nominato da Trump consigliere per la sicurezza nazionale. Della stessa idea è Peter Pham, assistente del segretario di stato e massimo conoscitore dell’Africa tra i componenti dello staff di Trump. Poco conta che secondo un sondaggio Gallup solo il 24% dei sudafricani giudica come pessimo il governo del tycoon.
Pretoria attende l’ira funesta del sinistro Trump.
Accordo di Parigi
È stato adottato nel 2015, durante la Cop21 nella capitale francese. È il primo trattato internazionale per il contrasto ai cambiamenti climatici che impegna in forma giuridicamente vincolante tutti i paesi firmatari. Gli obiettivi principali dell’intesa sono contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici e contenere l’aumento della temperatura terrestre entro i 2 gradi celsius rispetto ai livelli preindustriali entro la fine del secolo, puntando a limitarlo entro gli 1,5 gradi.
I paesi firmatari sono chiamati a prendere una serie di impegni finanziari e a preparare dei piani nazionali di riduzione delle emissioni di Co2 da verificare ogni cinque anni. Yemen, Libia, Iran e ora gli Usa (per la seconda volta) sono i soli quattro paesi dei 195 che fanno parte dell’Onu a non far parte degli accordi.
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