A Bruxelles ci deve essere qualche appassionato di filosofia. Qualcuno che, rifacendosi all’antico paradosso di Zenone, sta convincendo tutti che Achille non supererà mai la tartaruga. La grandiosità logica del presocratico, però, mal si adatta a spiegare il mondo contemporaneo. Donald Trump può piacere o no, ma è alla Casa Bianca da una decina di giorni e ha già fatto una rivoluzione. Decide, reagisce agli stimoli, cambia direzione, si adatta.
Ursula von der Leyen si è insediata ufficialmente il primo dicembre, ma nessuno ha ancora capito esattamente come intenda tirare fuori l’Europa da quelle secche in cui, fra l’altro, lei stessa l’ha trascinata nella scorsa legislatura. Mentre tutto si sta muovendo alla velocità della luce, con la Cina che ha dimostrato in un batter d’occhio di poter dare filo da torcere all’Occidente pure sull’intelligenza artificiale (come se non bastasse il resto), la tartaruga prosegue placida nel suo cammino. A tracciare la direzione, come si conviene ad un popolo di navigatori, è una “bussola”. Così la presidente della Commissione ha voluto chiamare il suo piano per il rilancio della competitività della Ue, elaborato sulla scorta dei suggerimenti arrivati da Mario Draghi ed Enrico Letta. E già qui qualche dubbio viene.
Per carità, alcuni impercettibili cambi di traiettoria si intravedono. La von der Leyen parla di pragmatismo sul green deal, di neutralità tecnologica, di semplificazioni shock per le imprese. Poi, però, quando si va al dunque tutto resta gattopardescamente uguale. Lo stop alle auto termiche nel 2035 non si tocca, le multe che arriveranno prima neanche, seppure ci sarà un po’ di flessibilità. Quanto alla semplificazione, l’obiettivo è ambizioso: un taglio di 37,5 miliardi nei costi ricorrenti entro la legislatura. La strada, però, sarà quella dei ritocchi, non delle forbici o del lanciafiamme. Il contenuto del primo pacchetto Omnibus previsto per fine febbraio renderà più snelle le «normative sulla rendicontazione finanziaria sostenibile, la due diligence sulla sostenibilità e la tassonomia». E in queste parole è scolpito il fallimento dell’Europa.
Al di là del fatto che nessuno capisce di cosa si parli, pensiamo davvero di poter battere la concorrenza americana e cinese con la “tassonomia”, la «due diligence sulla sostenibilità” e le «rendicontazioni sostenibili»? Da una parte ci sono gli Usa, la cui parola d’ordine è “drill, baby, drill” (trivelliamo a tutto spiano), dall’altra c’è la Cina che lo scorso anno ha registrato il record di produzione e consumo di carbone (un terzo dei valori mondiali, anch’essi da record nel 2024). Noi, che produciamo il 9% delle emissioni globali, andiamo avanti con la sostenibilità.
Poi c’è il capitolo tecnologia. Il problema, ha detto la von der Leyen, è che ci mancano i capitali privati per gli investimenti. Giusto. La soluzione? Usiamo i soldi dei risparmiatori e creiamo un mercato unico dei capitali. Forse alla von der Leyen sfugge che l’Europa è l’unica area del pianeta dove gli iPhone non montano l’IA per via dei troppi vincoli. Già, perché noi l’intelligenza artificiale non la sviluppiamo, ma siamo i campioni del mondo nel regolarla attraverso montagne di scartoffie. Poi ci chiediamo perché i grandi fondi internazionali che investono ovunque non lo fanno nelle nostre startup innovative. La risposta dell’Italia a DeepSeek è emblematica: divieto di scaricamento dagli store ufficiali di Apple e Google. Come se chi utilizza l’IA non sapesse scaricarla in altri modi.
A segnare definitivamente il nostro destino, infine, ci sono le sinistre che vivono nelle nuvole. Per i Cinquestelle quelle della von der Leyen sarebbero politiche «neoliberiste». Per il Pd e i socialisti europei il piano per la competitività metterebbe a rischio la lotta al cambiamento climatico. La strada, per il fronte progressista, è un’altra. Eurobond e risorse proprie per aiutare le aziende azzoppate dalle ecofollie. In pratica, domineremo il mondo a colpi di tasse e balzelli.
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