Elezioni chi? Ministri e peones, un coro di no alle urne anticipate

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La tentazione c’è. È innegabile. Ancora venerdì scorso Giorgia Meloni ha celebrato sui suoi profili social “il consenso solido degli italiani”, pubblicando una slide con l’ultimo sondaggio di Youtrend. Quello che dà Fratelli d’Italia oltre la soglia psicologica del 30%. Al 30,1% per l’esattezza. E questo proprio nelle ore in cui la premier faceva trapelare la voglia, o la tentazione appunto, di andare a elezioni anticipate come ha raccontato su queste pagine Fabio Martini. Ma le pulsioni elettorali di Frodo-Giorgia, dovute forse alla fatica di portare l’anello del potere (metafora della sorella Arianna) dribblando gli “agguati” dei magistrati cattivi, sono destinate a restare nel cassetto. Contro il voto anticipato si alza un vero e proprio muro. A tirarlo su in tutta fretta sono i ministri di Fratelli d’Italia. E, naturalmente, Matteo Salvini e Antonio Tajani per nulla disposti a rischiare un ulteriore ridimensionamento, sancendo la consacrazione al ruolo di eterni scudieri dell’underdog di Colle Oppio.

“Questa storia delle elezioni anticipate è un’emerita cavolata”, dice un ministro di rango di FdI sotto garanzia dell’anonimato, “Giorgia non le cerca. E tantomeno le vogliamo noi. E per noi intendo sia chi sta al governo, sia chi sta nel partito e in Parlamento: non si va a votare quando sei al potere e stai guidando la svolta a destra dell’Europa…”. Pausa, sospiro: “Certo, se poi lo scontro con una parte della magistratura e con certi poteri forti si alzasse oltre misura e paralizzasse l’azione del governo, Giorgia potrebbe decidere di appellarsi al popolo. Speriamo non accada”.

Altrettanto netto nell’escludere il voto anticipato è Maurizio Gasparri. “Succede a tutti di avere reazioni di pancia, soprattutto quando si finisce sotto un ingiustificato attacco dei magistrati”, dice ad HuffPost il capogruppo di Forza Italia in Senato, “ma questa storia del voto in primavera è del tutto campata in aria. Non esiste. È una sciocchezza bella e buona. Glielo posso garantire”.

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Nella stessa trincea scende Matteo Salvini: “Il tema del voto anticipato non è all’ordine del giorno”, fa filtrare il segretario leghista. E Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega in Senato e nuovo segretario della Lega lombarda, mette a verbale con HuffPost: “Il solo sentire parlare di elezioni mi fa venire da ridere. È una bufala. Una bufala colossale. Questo perché tutti guardano al voto anticipato come il cappone a Natale guarda al pentolone. Nessun parlamentare vuole andare a casa prima del tempo. Dunque…”.

Vero, verissimo. Ma Meloni di ragioni per tentare la sortita elettorale ne avrebbe, eccome. E non sono legate solo alla rabbia per essere stata iscritta nel registro delle notizie di reato per la liberazione dell’ufficiale libico Osama Almasri, assieme ai ministri Carlo Nordio (Giustizia), Matteo Piantedosi (Interni) e al sottosegretario Alfredo Mantovano. O per i continui stop dei magistrati di Roma alla deportazione dei migranti in Albania. Dopo due anni di governo, caso pressoché unico, il consenso della premier è in crescita. E andando al voto avrebbe l’opportunità di surfare l’onda, dopo la vittoria di Donald Trump, della destra mondiale in forte crescita. In più, votare in primavera anziché alla scadenza naturale del settembre 2027, eviterebbe a Frodo-Giorgia di pagare il prezzo dell’economia in stallo, del malessere sociale crescente, delle riforme promesse e non attuate: il premierato è finito in un vicolo cieco, l’Autonomia è stata fatta a pezzi della Consulta, le tasse non sono state tagliate, etc. Senza contare che adesso il fronte dei nemici e dei competitor è allo sbando: il centrosinistra è ben lontano dal poter offrire un’alternativa di governo, la popolarità di Salvini (fuori e dentro al Lega) è ai minimi storici e all’orizzonte prossimo non è prevista la discesa in campo di alcun rampollo di Silvio Berlusconi.

Così il vero deterrente contro il voto anticipato sono i precedenti storici. Chi ha aperto la strada alle urne è sempre finito male. Basta pensare a Salvini nel 2019, passato in una manciata di giorni dai mojito del Papeete all’opposizione. “Perché”, come dice un leghista che ha imparato la lezione, “una maggioranza in Parlamento si trova sempre, nessun senatore o deputato vuole perdere anzitempo lo stipendio. Abbiamo governato assieme al Pd con Draghi, potremmo rifarlo per rispedire Meloni nell’angolo…”.



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