Cosa ci dice la storia di Elizabeth Bouvia sul suicidio assistito

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L’ultimo giorno di produzione del suo Life After Reid Davenport ha pensato di lasciarsi inquadrare mentre compilava il modulo di richiesta di suicidio assistito. Dopotutto il suo film parlava anche di questo, persone come lui che avevano chiesto e ottenuto il Maid e il modulo era disponibile per tutti gli adulti disabili del Canada.

«Sapevo già prima di compilarlo che avrei avuto diritto alla morte assistita secondo la legge. Ma non ero preparato a quanto sarebbe stato superficiale, o a come avrebbe reso la mia vita monodimensionale così rapidamente. Mi sono state poste versioni di queste domande molte volte prima, soprattutto in contesti medici, dove la mia vita diventa sempre sinonimo di tutto ciò che non posso fare, priva di qualsiasi altra parte di ciò che sono.

Mentre ero seduto lì con la mia squadra, mi sentivo completamente solo, trasportato in una dimensione contenente le mie passate esperienze di isolamento e fallimento, unite ad aspetti di un percorso parallelo (uno senza la mia meravigliosa famiglia e moglie, un’istruzione e i mezzi per sostenermi finanziariamente). Per la prima volta, mi sono chiesto seriamente: in questa dimensione parallela, sceglierei di premere “invia” su questo modulo e deciderei di porre fine alla mia vita?».

Se fosse stato canadese il suo governo lo avrebbe aiutato a morire solo perché ha la paralisi cerebrale. Al suo Life After, presentato in anteprima nei giorni scorsi a Sundance Film Festival, aveva dedicato anni di ricerche, interviste, raccolta dati. Per arrivare a una conclusione: «Il suicidio assistito rappresenta un pericolo chiaro e attuale per le persone disabili», ha detto senza mezzi termini al Guardian: «Prendo questa posizione da un punto di vista di sinistra».

La Commissione di esperti Uk che tifa suicidio assistito

Quella di Daventport è una voce fuori dal coro nel dibattito ospitato dai giornali britannici sulla legalizzazione del suicidio assistito. Il disegno di legge Terminally Ill Adults (End of Life) Bill, approvato alla Camera dei Comuni alla fine di novembre è ora al vaglio di commissioni (si preveda torni alla Camera il 25 aprile), dove il dissenso è stato ridotto al minimo indispensabile. Stando ai resoconti di Spiked la stragrande maggioranza dei parlamentari selezionati dalla promotrice del disegno, la laburista Kim Leadbeater, sono schierati a favore del suicidio assistito cosi come i testimoni: «Dei nove esperti legali auditi in commissione, tutti sono a favore del disegno di legge. Lo stesso vale per gli otto esperti chiamati da paesi in cui la morte assistita è già legale». Tra questi non figura – ovviamente – il Canada.

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Sono stati ascoltati invece medici e parlamentari australiani capaci di negare con disinvoltura che fosse un problema il fatto che il 35 per cento delle persone morte per suicidio assistito nell’Australia Occidentale si sentissero “un peso” per il prossimo. Esperti che hanno affermato con convinzione che il suicidio assistito è una forma di prevenzione del suicidio (bugie ampiamente smentita, e che «le cure palliative possono trarre beneficio dalla legalizzazione». Sono parole del deputato Alex Greenwich, peccato che nello stato in cui opera, il New South Wales, il budget per le palliative sia stato tagliato di 249 milioni di dollari australiani nello stesso anno in cui il suicidio assistito ha ricevuto un aumento di 97 milioni.

Gli inglesi “vivi” in mancanza di una legge

Secondo Kim Leadbeater la morte assistita va legalizzata indipendentemente da quanto siano buone o meno le cure palliative perché a prescindere da queste «alcune persone fanno una fine orribile e straziante». La Bbc le dà manforte raccogliendo le storie di pazienti in cure palliative che sarebbero disposti a pagare per andare in Svizzera a morire ma desistono per paura di quello che potrebbe succedere a chi li accompagna: in altre parole sono vivi solo in mancanza di una legge.

Perfino l’ex direttore medico di un hospice e consulente per le cure palliative, il dottor Richard Scheffer sostiene che i servizi di cure palliative nel Regno Unito sono «i migliori al mondo», «possono ancora migliorare» garantendo a quella piccola percentuale di pazienti «le cui sofferenze non vengono gestite dalle cure» di avere «una via d’uscita».

Oltre 15mila morti all’anno fanno centinaia di milioni di risparmio

È cominciata così anche in Canada. Una legge per “una piccola percentuale” di sofferenti con pochi mesi di vita. Oggi invece offrire il protocollo del Maid (Medical Assistance in Dying),tra le opzioni di “cura” è diventato una prassi del servizio sanitario: l’anno scorso l’hanno scelto in 15.300 (quasi il 5 per cento del totale dei decessi). Dati parziali: secondo l’Ap le autorità mediche in Ontario e Quebec «istruiscono esplicitamente i dottori a non indicare sui certificati di morte se le persone sono morte per eutanasia». E questo ha molto poco a che fare con la compassione (vedi le storie di chi ha chiesto il Maid perché non può permettersi le cure, spese non coperte dal sistema sanitario) e molto con i costi: dall’espansione del protocollo, nel 2021, anche alle persone disabili o con malattie croniche non terminali, sono stati calcolati 149 milioni di dollari di risparmio in costi sanitari.

I sostenitori del suicidio assistito lo chiamano «avere il controllo sulla propria vita», dice Davenport al Guardian. Ma in troppi casi decidere non significa affatto «libera scelta. Ci sono altri fattori», ci sono forze esterne, ripete il regista: la povertà, la mancanza di supporto domiciliare o liste d’attesa lunghe mesi per i medici specialisti. Proprio come la possibilità di avere aiuto, cure, amore. Forze esterne e di segno contrario a dettare una decisione.

La storia di Elizabeth Bouvia a cui nessuno oggi negerebbe la morte

Life After nasce dalla curiosità di Davenport per il caso di Elizabeth Bouvia, “musa” dei movimenti per il diritto al suicidio, una donna di 26 anni della California che nel 1983 cercò di lasciarsi morire di fame in un ospedale. «Ho preso una decisione razionale e sicura», ripeteva. I dottori iniziarono ad alimentarla forzatamente, ma lei si oppose. Il caso passò in tribunale ed ebbe enorme risonanza mediatica, “Elizabeth Bouvia è giovane, carina, intelligente e pronta a morire”, titolavano i giornali.
Bouvia soffriva di artrite e paralisi cerebrale, proprio come Davenport. I suoi medici le avevano dato 15 o 20 anni, per lei indegni di essere vissuti in quelle condizioni. Perse la causa: per i giudici non aveva diritto a morire. E così la donna scomparve dalla scena pubblica.

Oggi in Canada avrebbe avuto accesso al Maid e il Canada è il destino di tutti paesi, dagli stati americani a quelli europei, che stanno rotolando lungo il pendio scivoloso (slippery slope) imboccato con la legalizzazione della morte assistita. Nel 1983 Bouvia era fermamente decisa a morire. Nel 1986 quando un giudice annullò la precedente sentenza decise che avrebbe aspettato la morte naturale che si augurava arrivasse il prima possibile. La donna morì nel 2014, visse un decennio in più rispetto alle più rosee previsioni dei medici degli anni Ottanta. Cosa era successo in quegli anni?

L’ultimo ballo della giovane Bolen, tra chi era felice che avesse scelto di morire

«Le interviste, più i filmati home-video forniti dalla famiglia (le sorelle raggiunte dal regista) dipingono il quadro di una donna che ha beneficiato dei progressi tecnologici e di un migliore supporto, era una lettrice vorace e sembrava contenta, persino felice. Invece che in un ospedale, viveva nel suo appartamento, con un’infermiera che la seguiva», scrive il Guardian. Anni lieti rispetto agli eventi che l’avevano precipitata nella richiesta di morire, tra gli altri il crollo del suo sogno di diventare assistente sociale dopo l’università. Anche lei sentiva di essere, paralizzata e inutile, nient’altro che un peso.

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Il pericolo che il can can sulla legalizzazione potrebbe incoraggiare chi si sente un peso a considerare la propria vita indegna e chiedere e ottenere di morire è reale. In Life After Davenport affronta il caso di Jerika Bolen, una quattordicenne del Wisconsin affetta da atrofia muscolare spinale a cui nel 2016 è stato permesso di interrompere le cure. È morta in un hospice dopo che la comunità le ha organizzato un ballo di fine anno, ampiamente celebrato dai media, chiamato “J’s Last Dance”, con la mamma che ripeteva di amarla con tutte le sue cellule, «nessuno, sano di mente, lascerebbe che qualcuno soffrisse come lei». Rivedendo il filmato del “ballo” di Bolen, tuttavia Davenport non poteva fare a meno di pensare che «nessuno, tanto meno un bambino, dovrebbe sentirsi dire che porre fine alla sua vita sarebbe stata una decisione ammirevole».

Da libera scelta a unica scelta

Il film di Davenport apre domande, non giunge a conclusioni. Lui sì. È convinto che sia il momento peggiore per affrontare il tema del suicidio assistito. Che in una società “neoliberista” in cui dottori e pazienti sono soggetti a enormi pressioni sociali ed economiche, e in cui l’abilismo e la scarsa assistenza sanitaria compromettono l’autonomia dei disabili, la morte assistita potrebbe rappresentare tutt’altro che una scelta, bensì l’unica opzione.

Non è un cattolico né un conservatore, e sa che i progressisti tratteranno il suo documentario alla stregua di quello che vanno ripetendo sul “pendio scivoloso”, puro «allarmismo». La storia di Bouvia, Bolen e quelle terribili che arrivano dal Canada, inviando un modulo disponibile a tutti i disabili, ne fanno al contrario un argomento validissimo.



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