Desiderio senza limite e confine culturale fittizio, CNP, 30 Novembre – 1° Dicembre 2024. Report di M. Ligozzi

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3/02/25

Serigrafia XV/XIX Riccardo Dalisi

Desiderio senza limite e confine culturale fittizio

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CNP, 30 Novembre – 1° Dicembre 2024

M. Ligozzi

Nel descrivere le due giornate del convegno organizzato dal Centro Napoletano di Psicoanalisi, sento di poter dire che il titolo scelto Desiderio senza limite e confine culturale fittizio ha funzionato da cornice semantica e contestuale che ha consentito a lavori diversi di convergere e dialogare in maniera armonica, integrando lo sguardo psicoanalitico metapsicologico con quello etnoantropologico, psicosociologico, sociopolitico e culturale.        

Dopo l’introduzione di Silvana Lombardi che sottolinea l’interdipendenza complessa tra desiderio e limite, il primo intervento è di Sarantis Thanopulos. Nel tentativo di esplorare il conflitto tra desiderio e bisogno, egli introduce un paradosso: in seguito alla pandemia ci siamo ritrovati da un lato guerre e conflitti insanabili e dall’altro la percezione di una società aconflittuale.

Per Thanopulos la pulsione che tende alla conservazione e mira all’appagamento urgente e quindi al sollievo, va distinta dalla pulsione erotica che sostanzia il desiderio e implica la persistenza di tensioni sensuali psicocorporee, laddove c’è il rispetto dell’idioma dell’oggetto, mai del tutto catturabile.

Egli descrive diverse tipologie di conflitto: un conflitto insito nel legame di desiderio, un conflitto tra la logica del desiderio e quella del bisogno, un conflitto che nasce dal bisogno.

La prima forma conflittuale è legata al lutto e alla possibilità di trasformare il desiderio e ritrovare in noi o in altri l’oggetto perduto. Questo processo può dare un senso di continuità nella discontinuità: il lutto è la condizione necessaria di ogni processo trasformativo. Ad esempio i poeti tragici narrano vicende con scelte impossibili tra sé e l’altro, come quelle di Creonte e di Antigone. L’eccesso di egoismo, come pure di altruismo, porta alla distruzione. L’opera tragica crea orrore e compassione, ma il desiderio diviene presentimento di un ritrovamento.

Il conflitto tra bisogno e desiderio è un conflitto tra quantità e qualità. La qualità non deriva da composizioni calcolabili con l’intelligenza artificiale, ma della composizione variegata tra consueto ed inconsueto e dalle esperienze vissute, ma non del tutto concepite. Secondo la logica del desiderio i soggetti sono diversi, ma pari. Secondo la logica del bisogno ci sono soggetti uguali a parità di condizioni, ma impari per risorse mentali. La mediazione è funzionale ad un equilibrio; se c’è egemonia di desiderio o di bisogno si può arrivare a compiere errori di valutazione. L’impasse tragica, l’hamartia, implica una serie di errori preterintenzionali, ovvero errori intenzionali dove la concatenazione fatale non è calcolabile.  Assistiamo di continuo a catastrofi naturali che sono connesse a questo tipo di errori, dove sembra non ci sia una vera capacità di concepirne le responsabilità.

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Il conflitto nell’area del bisogno, infine, è insito nelle logiche della società attuale dove l’altro è impersonale, desoggettivante. Le conseguenze del conflitto sono insanabili perché l’altro sparisce come amico e nemico, esiste come altro impersonale che crea una tensione di cui sbarazzarsi e immagini che sembrano senza sogno. Il conflitto assume la forma di un contrasto tra civiltà democratica e decivilizzazione.  Il potere assoggetta dominatori e dominati in un contesto di monadi uguali e logiche autoreferenziali. In questo scenario prevalgono gli assunti di base – attacco e fuga, dipendenza dal capo e aspettative messianiche – laddove il messia assume la forma dell’algoritmo rivelatore.  Thanopulos ricorda il personaggio di Tantalo immerso in una frustrazione cronica e condannato a non soddisfare mai i suoi appetiti. Viene infine ricordata la Polis greca dove soggetti differenti, ma pari, si incontrano e ritrovano il tempo libero e gli spazi conviviali.  L’azione inoperosa resta aperta ad altre azioni nel tempo del gioco. Il tempo libero, dunque, non è tempo morto, ma un tempo che può aprirsi al lavoro creativo.

A tal proposito Lombardi ricorda il film Giorni Perfetti (Wenders, 2023): nella sua lettura il protagonista, al fine di vivere giorni perfetti, ha forse dovuto ridimensionare il conflitto tra desiderio e bisogno.  

Alla dimensione omogenea ed eterogenea del tempo presente si aggancia Maurizio Balsamo, secondo relatore della giornata. Nel titolo del convegno “Desiderio senza limite e confine culturale fittizio” egli rintraccia la giusta direttrice. 

Balsamo cita Piera Aulagner – l’istituzione di confini è parte di un processo culturale – ma anche Levi Strauss – l’umanità cessa alle frontiere delle tribù del gruppo linguistico. L’umanità, in effetti, si costituisce definendo regole di apertura e di chiusura.  Si tratta di un processo tipicamente umano non connesso ad una storicità eccezionale. Oggi assistiamo ad un’amplificazione dei processi di risorgenza e permanenza. Ogni giorno ci troviamo di fronte a nuove realtà da includere o da escludere. A tal proposito Balsamo riprende l’immagine della nave dei folli su cui venivano portati via coloro che dovevano essere esclusi. Nella società le sopravvivenze possono essere delle permanenze trasformate. La rapidità e la vastità dei circuiti informativi ci sottopone ad entità autoreplicantesi che destabilizzano.

Le trasformazioni attuali hanno anche un valore metastorico. Emerge una fluttuazione dei significati esistenziali e ontologici: si oscilla tra indefinitezza e regole ad hoc rigide. Balsamo collega ad esempio i confini fittizi alla questione complessa dei confini paradossali nel mondo LGBTQIA+. Anche in un regime di massima fluttuazione quale sembrerebbe quello del mondo LGBTQIA+ insorgono nuove regole di esclusione. Il lesbismo, infatti, è l’unico movimento che esclude il pene e potrebbe essere accusato di transfobia. La nuova coscienza fatta di indeterminazione sembra più indisponibile. In questa maggiore fluttuazione sembrano accentuarsi le piccole differenze. L’istituzione di confini e le fluttuazioni identitarie sono correlabili in un contesto di dissolvenza del legame sociale. La ferocia del noi si scontra con la ferocia del voi in uno scenario di irrigidimento e respingimento della verità dell’altro. La costruzione di confini fittizi è un fenomeno autoidentitario. Solitamente la diversificazione interna aumenta quando la società diviene più voluminosa. Il rischio è la desertificazione e la fluidità dei legami affettivi. La dimensione autoregolatoria si scontra con un pulsionale sotto l’egida del processo primario che vede il corpo come infinitamente plasmabile. Si tratta di una cultura monosessuale che detronizza il pene e vuole eliminare ogni scarto interno.

Il confine edipico stabilisce sia un legame che un confine. Il rapporto tra sessualità legata e slegata è costante, laddove quella slegata ha a che fare con la ricerca di ruoli e posture plastiche così come vengono descritte nel sessuale infantile perverso e polimorfo.  L’articolazione tra sessualità legante e slegante permette di articolare le differenze sessuali, che sembrano essere state cancellata dalla teoria del genere.  

Assistiamo ad un’espansione ipertrofica dell’Io all’interno di una dimensione narcisistica. Il narcisismo convive con una desostanzializzazione postmoderna. Balsamo teme quella che definisce una clinica del vuoto, laddove assistiamo ad una disgregazione e ad una coesistenza di contrari. Pontalis nel lavoro sul “Disagio della civiltà” ricorda che Freud utilizzava il termine Disagio a proposito di quelle che lui definiva “nevrosi attuali”. L’aggettivo attuale si riferisce al fatto che le condizioni del presente sembrano sufficienti a spiegarle, ma anche al fatto che esse attualizzano, trovando un’espressione diretta in sintomi somatici e angoscia diffusa. Al posto del conflitto, troviamo tensione e angoscia che si scarica nel tentativo di sbarazzarsi di un’eterogeneità interna. Green parla di uno slegamento soggettuale per sottolineare non tanto il disinvestimento del legame, quando lo scioglimento dell’impegno con l’oggetto.

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Per Balsamo le nevrosi sono attuali anche nel senso di una cesura temporale e di un’organizzazione psichica che dobbiamo provare a identificare e a riconoscere nella sua particolarità. L’eterocronia strutturale dello psichico, in un rapporto costante fra dimensione metastorica e attualità trasformativa, si distende lungo popolazioni, gruppi, parti di sé non necessariamente in dialogo tra loro, anzi spesso scisse. 

Dobbiamo considerare che esistono logiche molto diverse da quelle occidentali, altri modelli narrativi di filiazione. Osserviamo ad esempio rappresentazioni di oscillazioni contraddittorie della funzione del padre. Emergono nuove geopolitiche psichiche dove se da un lato il padre è un operatore metapsicologico, dall’altro facciamo i conti anche con la presenza effettiva del padre. La rappresentazione del padre si connette ad altri aspetti del sistema simbolico, potere, stato, diritto, forza, determinando risultati stratificati.

Mavi Stanzione introduce il suo lavoro “tra soglia e infinito: desiderio, trasgressione e speranza”, ripercorrendo i confini, così come sono stati raccontati nella storia dell’umanità e ci ricorda che il confine è una realtà per la quale si può uccidere. La frontiera è una fascia di territorio dove il confine è sfumato.

La realtà è quella che creiamo culturalmente. La storia è cambiata, nel senso che è cambiata l’immagine che gli uomini si costruiscono della loro storia. Il processo analitico crea turbolenze e la coppia analitica deve lasciarsi alterare da quanto di misterioso, inconsueto e nuovo affiori dai luoghi perturbanti. Allora capovolgimenti e inversioni divengono possibili movimenti verso nuove aperture e impensate soluzioni.

Per Mavi Stanzione la componente dissidente in Freud, come in Fachinelli, aiuta a dire altrimenti. Edipo non ha violato solo il tabù dell’incesto, ma anche il limite della natura umana. Stanzione cita Francesco Napolitano a proposito del teorema del limite, secondo cui la più grande conquista conoscitiva consiste nella conoscenza dei limiti della conoscenza. Edipo e Tiresia esprimono due forme diverse di cecità. Il teorema del limite fu dedotto da Caldwell che confronta la cecità di Edipo e quella di Tiresia, la prima effetto di devastante Knowingness (presunzione di sapere), la seconda causa di luminosa Knowledge (Conoscenza). Solo con la metamorfosi della prima nella seconda, un nuovo capovolgimento, Edipo si pone su un piano di simmetria con Tiresia.

Mavi Stanzione ci ricorda che gli opposti convivono in tensione. Nella metafora del moto ondoso trasgressione è l’inverso di regressione in un lento perpetuarsi di avanzata e ritirata delle onde. Il limite, in parte sommerso e in parte emerso, diventa la soglia che va continuamente attraversata, trasgredita. Il confine è qualcosa che finisce per dare senso al nostro spazio e per delimitarlo rispetto ad un altrove.

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Si rende utile una buona dose di oblio per non sentirsi intrappolati nelle convenzioni di un confine troppo netto. La linea retta del confine andrebbe quindi affiancata all’idea più dinamica di frontiera: è lo spazio dove ci si confronta e che ci permette di ripensare il limite che non sarà cancellato, ma considerato come luogo della contraddizione in cui sostare tra desiderio e realtà. La cultura non può essere chiusa entro confini perché è costituita da uomini e donne che si muovono e attraversano confini.

A questo ultimo intervento della mattina segue una discussione molto ricca che trova diverse convergenze pur nella specificità di questi primi tre lavori. Alessandro Garella rintraccia una simile questione: la scheletrizzazione del funzionamento del preconscio che dovrebbe avere funzioni di mediazione. Se non c’è una funzione terza i limiti chiaramente si irrigidiscono. Il limen, a partire da Freud, è una situazione di confine, dove avviene un’attività di trascrizione e scambio. Nel processo di globalizzazione sembra venir meno tale attività.

Gemma Zontini riprendendo l’idea di immagini che non sognano, ritiene che sia l’immaginario a venir meno nel suo lavoro di mediazione tra percezione e simbolico: siamo sommersi da immagini, che creano una perdita di confini, un processo molto diverso da quello onirico che invece aiuta a delineare i confini.

Giuseppe Stanziano ricordando il movimento del ’77 in Italia, dove si diceva “vogliamo tutto”, pensa ad una vertigine e ad una tensione trasformativa del limite che si gioca nella relazione tra Super Io e Io, laddove il potenziale di censura e divieto e quello di istanza trasformativa si confondono.  

Thanopulos ricorda che il termine Nomos viene utilizzato per intendere sia le norme della musica sia la legge che definisce i confini. In una doppia accezione dove si invita ad avere il senso della misura e a non stonare. Pertanto il desiderio non supera mai il senso della misura perché persiste e sta nel limite.

Balsamo ripropone un’esigenza avvertita da Pontalis: la psicoanalisi dovrebbe essere la quinta stagione. La dimensione anacronica della nostra esperienza è quella che ci impone di resistere alla logica del qui ed ora. Il lavoro del negativo che implica pazienza e resistenza si oppone alla logica dell’istante. L’ambivalenza è un operatore metapsicologico fondamentale connesso alla capacità di mediare appunto. Il preconscio implica il tempo dell’attesa, che consente di non rispondere subito sì o no, ma creare le possibilità affinché il tempo ritorni. La percezione delle torri gemelle distrutte veniva presentata come il precedente attacco a Pearl Harbor: una diplopia, una costruzione che tendeva a riproporre nel tempo presente qualcosa di già accaduto.   

Nella sessione pomeridiana Simona Argentieri inizia il suo discorso sull’ambiguità del desiderio parlando della necessità di rendere presente l’oggetto assente. L’allucinazione primitiva è un’esperienza primaria multisensoriale. Il pensiero desiderante è stimolato non solo dalle mancanze, ma anche dalla presenza di fantasie, ovvero di una componente creativa e costruttiva.

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L’esperienza del desiderio tiene a bada l’esperienza della separazione e la concomitante angoscia, mettendo in moto la creatività attraverso meccanismi di difesa e la speranza del ritorno. La funzione desiderante viene modificata dalle difese. Argentieri si dice d’accordo con l’idea di Thanopulos che il desiderio venga goduto nella sua potenzialità. Quello che il paziente chiede non è necessariamente quello di cui ha bisogno. Secondo Argentieri il tema del convegno si colloca nell’ambito della psicosociologia. A noi psicoanalisti, spesso viene chiesto di esprimere la nostra posizione e non sempre il punto di vista clinico è compatibile con quello della psicosociologia. La Argentieri riprendendo il discorso del “vogliamo tutto” di Stanziano sottolinea che negli anni ‘70 era un grido contro il potere, adesso sembra essere un grido contro la realtà. Sembra esserci la nostalgia di qualcosa che non c’è più: l’ho perduto, ma forse non l’ho mai avuto. Troppa frustrazione inibisce la speranza, ma troppa gratificazione riduce il desiderio e la creatività. Secondo Argentieri, a scapito di un continuo riferirsi al nuovo, non si sono veramente trasformate le patologie, ma sono mutati i meccanismi difensivi. Sia nella teoria che nella clinica sembra tramontare l’importanza della scena primaria. La fluidità di genere sembra essere un modo di reggere a meccanismi difensivi troppo mortificanti.

L’interrogativo analitico è sempre attuale, non siamo badanti dell’anima, non funzioniamo come terapia d’appoggio. A proposito del bisogno di sicurezza dei pazienti oggi, riprendendo Sandler, Argentieri ritiene che esso abbia a che fare con l’istinto di conservazione: si tratta di un’operazione difensiva rispetto alla paura del cambiamento.

Paolo Cotrufo nel suo discorso su sessualità queer e cultura binaria, introduce l’idea di un binarismo culturale che non concepisce posizioni intermedie. Abbiamo da un lato la fluidità di genere dall’altro il binarismo culturale. Da un lato non c’è limite a quello che puoi essere e dall’altro un conflitto perenne tra civiltà e barbarie. La questione queer indica una posizione eccentrica, che include coloro che si interrogano sul proprio desiderio e vanno oltre i limiti degli organi. Paradossalmente è la categoria di coloro che rifiutano di entrare in una categoria. Il tema del gender implica una crisi della logica aristotelica. La libertà di essere quello che si vuole in una logica non binaria sembra più semplice rispetto al definire cosa significhi essere uomo o donna. Freud in Avvenire di un’illusione sottolinea che acquisire potere serve a padroneggiare la natura. La sessualità infantile è eccentrica e indefinita; potremmo allora dire che il bambino freudiano è queer se non incontra il divieto, ovvero un limite a quanto è desiderabile.  Le regole non sono coercizioni, ma limiti protettivi. La pubertà e le pressioni del corpo che emerge impongono ai ragazzi una serie di questioni affini a quelle queer. E’ fondamentale fermarsi sulla domanda, definirsi pur sempre nella propria indefinitezza. Anche per Cotrufo la sessualità infantile resta nella sessualità umana: cambiano però gli argini. La teoria del vivere civile si collega alla repressione sessuale, storicamente Freud ha collegato il successo della società alla capacità di repressione della sessualità.

I pazienti di oggi sono spesso casi limite con funzioni egoiche poco organizzate. Nella civiltà occidentale il limite appare iperinvestito. Ci sentiamo la civiltà messianica e loro, gli altri, sono culturalmente arretrati.

Per Paolo Cotrufo il limite non sarebbe solo un confine fittizio. Dopo la pandemia sembra essere aumentata la scissione tra coloro che si affidano all’informazione di massa e coloro che non si affidano. Il ruolo dell’intellettuale sembra essere fuori dal mainstream, quasi un anti-sociale, perché il pensiero critico dissonante viene spesso fagocitato. Non è il divieto a produrre frustrazione, ma la sua interiorizzazione. Il Super Io è l’interiorizzazione di un’autorità esterna e si accompagna ad una rinuncia pulsionale. La colpa come altra forma di angoscia, esiste prima del Super Io e del riconoscimento dell’autorità. Il timore dell’autorità interna e la paura di perdere l’amore crea l’angoscia sociale. Però il potere che esercita il divieto deve essere riconosciuto come autorevole. La nostra Kultur sembra non riconoscere altre comunità sovra ordinate. Non riconosciamo nell’altro una funzione totemica.

Durante la seconda guerra mondiale c’era il senso di dover combattere contro il male. Hitler come il demonio, incarnava il potere coercitivo. Per Paolo Cotrufo oggi la libertà individuale è divenuta un diritto, perdere l’amore di un’autorità svalutata non favorisce l’interiorizzazione del senso di colpa. Si può parlare di un principio di realtà virtuale, laddove il limite è evanescente e si reggerebbe attraverso il senso di colpa; tuttavia con l’espulsione dell’altro ci liberiamo anche dal suo rientro e presumibilmente dal senso di colpa.  

Il terzo relatore della sessione pomeridiana, Luigi Rinaldi, presenta dei casi clinici che sono esemplificativi delle forme del desiderio contemporaneo: evanescente, indifferente e muto. Il desiderio evanescente si caratterizza per la sua rapida eclissi, di fronte alle difficoltà incontrate lungo il cammino che potrebbe portare alla sua realizzazione. Molto diffuso nei giovani della generazione Z esprime una necessità di godere in modo autarchico nel qui e ora. Il desiderio indifferente si avvicina ai tratti del protagonista di Lo Straniero di Camus: la fuga dal dolore, ovvero il rifiuto o l’incapacità di affrontare anche la minima sofferenza, è un concetto chiave per comprendere il disagio giovanile contemporaneo. In una società che promuove il benessere immediato e la gratificazione istantanea, i giovani spesso sentono di non avere strumenti emotivi per affrontare le frustrazioni.

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Il desiderio muto non trova parole per raccontarsi. La conquista della capacità di raccontarsi è un punto di arrivo. La revêrie materna non ha fornito probabilmente una sufficiente significazione affettiva alle sensazioni e percezioni dell’infans, non lo ha aiutato a discriminarle e a darvi un nome così da consolidare la fiducia in sé e nell’altro.

Rinaldi auspica una scuola basata su una “pedagogia delle passioni”, che metta al primo posto la passione civile e ampli l’orizzonte, inventando nuovi modi di educare, lavorare e stare insieme, e creando così, desideri non asserviti all’ordine commerciale. Una scuola che stimoli innanzitutto il desiderio di communitas, che poggia su bisogni di giustizia, dignità e convivialità.

Nella seconda giornata del convegno, Domenica 1 dicembre, Gohar Homayounpour introduce il rapporto tra speranza e speranza radicale.

La concettualizzazione della speranza si avvicina alla jouissance lacaniana: per la psicoanalista iraniana gli speranzosi, come i catastrofisti, diventano molto simili nell’elaborazione freudiana della psiche, entrambi, insonni, non vivono con passione nell’etica del sociale, terrorizzati sia dai loro sogni che dai loro incubi. I catastrofisti, come gli speranzosi, rifiutano di piangere l’inevitabile perdita del paradiso e di affrontare le proprie ferite e quelle dell’altro. La prima cosa che viene uccisa nel traumatizzato è la capacità di sognare. Gli odierni traumatizzati diventano i catastrofisti del futuro perché non possono più sognare e hanno bisogno di trasformare la catastrofe in sogno. La speranza radicale è in ultima analisi la funzione oggettivante della pulsione per dirla con Green. E’ desiderio di comunità e senso di socialità, essenzialmente etica del sociale. La funzione oggettivante della spinta (Green) è una funzione essenziale della spinta vitale attraverso cui è possibile trasformare le strutture in oggetti, anche quando l’oggetto non è più direttamente coinvolto. Per Gohar Homayounpour la rivolta femminile in Iran è un esempio di speranza radicale. Nella trama stessa del motto “donna, vita, libertà”, c’è una chiara connessione con la vita, i legami, la creatività e la sublimazione. A differenza degli attacchi al legame di cui parla Bion, la speranza radicale dà fiducia alle generazioni successive. Diversa è la prospettiva di un Super Io antisociale e di una moralità che rafforza un Super Io punitivo. Per divenire un soggetto etico è necessaria la non appartenenza. Ogni tentativo di appartenenza implica il rifiuto dell’altro.

Kristeva osserva che la depressione è una patologia pre-edipica che deriva dal fatto che non si sa come fare a perdere l’oggetto materno: se non ci si rassegna a perdere la madre, non si può nemmeno immaginarla o nominarla. In breve, secondo Kristeva, la malinconia nasce dal non saper come perdere l’oggetto. Un soggetto pensante e desideroso nasce attraverso un legame con l’altro, non dal senso di appartenenza all’altro. Questa non appartenenza è il passo necessario verso il divenire del soggetto etico che si apre al mondo esterno e può incontrare l’inaspettato.

Uno scenario molto diverso è introdotto da Lorena Preta, che descrive nuove forme dell’immaginario sociale e del campo allucinatorio attraverso la presentazione di una mostra liminal di Pierre Huyghe.  Qui le opere artistiche sono influenzate dalla presenza dell’altro e sembra emergere la spinta alla fuga dall’unico piano di realtà in cui ci si sente intrappolati. In un legame di reciproco scambio le opere apprendono dai mutamenti dell’ambiente. Queste opere fanno immaginare la formazione di creature da una volontà non umana: un rito di passaggio tra umano e non umano. In un contesto di pluriformità dell’esperienza si avverte il pericolo di dislocamento.

Lorena Preta collega queste tendenze artistiche all’esigenza molto attuale di affermare la propria soggettività, attraverso una fantasia di autogenerazione e di illusione di autosufficienza. Un narcisismo primario che nega le differenze tra i sessi e le generazioni con un corpo-ambiente che muta insieme. Emerge una nuova sensibilità all’interdipendenza dall’ambiente. Da un lato sentiamo un’inquietante intimità, dall’altro emerge l’irriducibilità dell’alterità.  Ci si sente visitatori testimoni in contemplazione passiva. Le difese prevalenti sono la negazione e la reazione autoimmunitaria isolante dentro lo scenario dell’intelligenza artificiale come nuovo artefice.

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Se consideriamo la barriera di contatto di Bion, qui siamo di fronte a una sostanza impermeabile, che ha perso la funzione osmotica e ciò impedisce la creazione dell’inconscio e l’azione della rimozione. Non è facile far diventare inconscio ciò che stiamo vivendo. L’allucinosi di Bion implica l’incapacità di tollerare la frustrazione, lo scoppio di violenza improvvisa e l’annullamento di ogni realtà. Se il fallimento della rimozione è completo, l’esito del processo è la realizzazione allucinatoria. Lo stato allucinatorio, in uno stadio protomentale di indifferenziazione psiche-soma, tende a rigettare stimoli che non possono essere rimossi. Diversa è la funzione dell’allucinazione che implica una primordiale funzione creativa egoica.

Nel suo intervento Virginia Di Micco riprende il nesso costitutivo tra psiche e collettività. Il Kulturarbeit, ovvero il lavoro culturale è quello che dovrebbe proteggere dagli eccessi del pulsionale, ma ci acceca e non ci protegge dagli orrori della guerra. Di Micco riprende Green attraverso il concetto di catene di Eros, che indica l’incatenamento al corpo, la centralità del discorso metapsicologico e del pulsionale infantile. La catena che non si spezza ha in sé una componente costrittiva e ripetitiva. Ogni cultura rappresenta il luogo del ritorno del rimosso. La catena erotica è un significante importante, ma in contro luce le catene di thanatos spingono verso la morte. Lo slegamento della pulsione implica una coazione alla distruzione: si va verso la dissoluzione e la degenerazione. Di Micco descrive un processo che collega l’ideale di purezza e la costruzione del nemico. Le istanze Ideali si formano a partire dalle direttrici narcisistiche: da un lato scindono l’Io, una parte, infatti, andrà a costituire quel “gradino” all’interno dell’Io, che verrà poi meglio specificato da Freud come Super-Io, dall’altro invece ne assicurano l’unità, dal momento che sarà proprio quella parte idealizzata dell’Io ( l’Io ideale appunto) che potrà essere investita libidicamente e, dunque, potremmo dire che l’Io può amarsi solo sotto la forma dell’ideale o, detto altrimenti, in una forma pura.

Oggi assistiamo ad un’erosione dei fenomeni terziari: il migrante assume le sembianze di un doppio deformato. Conviviamo con lo straniero ogni giorno, ma quando l’elemento altro, il riconoscimento dell’alterità viene meno è a rischio la dimensione terza. Il migrante in quanto figura indispensabile è incollocabile: rappresenta il forcluso che torna nel reale. L’istanza dell’ideale dell’Io può divenire tirannica, quanto più si erode il Super Io terzo.

Riprendendo Aulagnier, Di Micco descrive un funzionamento originario per il quale sbarazzarsi del male significa anche togliere via una parte di sé. Ci sono aree straniere nell’Io. Più le identità culturali sono fragili più si irrigidiscono e si va verso la ricerca di purezza. 

Il confine viene rinforzato dalla presenza del nemico. Contro il nemico si può fare una guerra “aperta”: in un certo senso il nemico è “facile da pensare”, mentre il meticcio, in quanto doppio deformato e frutto di mescolanza, è “impossibile da pensare” perché mette in crisi i nostri stessi strumenti per classificare e identificare.

Da questo punto di vista il fondamentalismo religioso cercherebbe quell’ideale di purezza che sfocia nella crudeltà. La costruzione del nemico si compie attraverso le generazioni. De Micco distingue tra un nemico/altro, ascrivibile ai fenomeni terziari, e un nemico/doppio, che si situa al di fuori delle logiche terziarie e richiama l’odio per il doppio deformato, non conforme all’ideale di purezza. Quest’ultima modalità sembra quella prevalente nelle feroci guerre fratricide attuali, animate da un furioso desiderio di distruzione totale, senza limite appunto. L’avvenimento traumatico diviene evento mitico fondativo. Lo spazio del dolore inaccettabile viene cancellato dalla ricerca del risarcimento: da qui una coazione a ripetere collettiva nella quale ci si identifica. Sembra emergere un patto del negativo dove si ripete senza elaborare. I mostruosi conflitti fratricidi si identificano con il cumulo di morti del passato in un processo opposto a quello della speranza radicale. Ci si obbliga a ripetere che i morti che ci sono stati non devono essere morti invano. Piuttosto che un disimpasto pulsionale in cui la pulsione di morte si “slega” dalle spinte vitali, si tratta forse di un processo che mette le pulsioni vitali al servizio di mete mortifere.

De Micco conclude il suo intervento individuando il rischio che una psicoanalisi pietosa possa infettare la piaga. In tal senso il pensiero psicoanalitico se vuole essere davvero trasformativo anche sul piano delle dinamiche sociali, e fare la differenza, deve essere un pensiero spietato, che esercita la spietatezza metodologicamente, nel faticoso tentativo di vedere ciò a cui siamo irrimediabilmente incatenati per non continuare a riprodurlo ciecamente.

Nella discussione della seconda giornata Gemma Zontini sottolinea che le tre relazioni sono legate a un collettivo sociale. Una parte della psicologia collettiva si è autogenerata sganciandosi da quella individuale. Ma come si lega la speranza radicale a quella individuale che ha a che fare con l’Ideale dell’Io? Forse si tratta di riscoprire un’etica collettiva che ci solleva dall’impotenza individuale?

Alessandro Garella prova a rispondere ai nodi del convegno ricordando che negli anni 50 la nascita della Cibernetica contribuì alla definizione di una legge: non esiste un sistema che possa tollerare qualcosa che varia nei limiti della propria conformazione. L’implicito sarebbe che il sistema psichico, le strutture psichiche, sono il frutto dell’interazione tra qualcosa che le precede e la contingenza. Come è il presente oggi? Dobbiamo posizionarci ai margini per poterlo guardare. Ci stiamo interrogando su come le strutture che adoperiamo stiano variando sotto i nostri occhi. L’ideale dell’Io mangia l’Io ideale. La topica si va trasformando. Le immagini percettive sembrano prevaricare quelle psichicamente concepibili. Quali mezzi abbiamo per trasformare le immagini percettive in psichico? Forse va trasformato il preconscio: L’Io dovrebbe avere un’area interiore per situare la soggettività che dal momento in cui viene invasa dall’oggetto, allora forse è già di massa.

Thanopulos prova a riprendere alcuni punti sottolineando l’esigenza di riparlare di confini e limiti all’interno di idealità e differenze: il confine si apre e si ridefinisce, va in crisi se si chiude troppo il confronto con le differenze. Nel limite l’esperienza umana si definisce sia rispetto al desiderio che al bisogno. L’umano è radicato nell’inconscio e pertanto si collega a quella che è stata definita speranza radicale. La volontà inumana ha a che fare con la volontà di coscienza che cerca di recidere il legame con l’inconscio. L’identificazione con l’aggressore in quanto processo difensivo contro la sottomissione passiva, si può esprimere in forme di psicosi bianca, ma potrebbe spiegare anche il contesto del potere assoluto.

Gohar Homayounpour cita Scherazade, personaggio immaginario che crede nell’universalità dei complessi. Il complesso materno non è centrale. Scherezade si rappresenta anche come una donna che può andare in guerra. Le nostre soggettività si formano attraverso radici multiple. Per molto tempo le donne iraniane sono state vittimizzate o politicizzate. La posizione della speranza radicale consente di superare le dicotomie binarie e le politicizzazioni.

Lorena Preta sottolinea che nella nostra società ci sono stati cambiamenti notevoli: la musica che si riproduce all’infinito attraverso l’intelligenza artificiale, figure con stimoli liminali che si replicano indefinitamente. L’immaginario sociale cambia nella misura in cui il virtuale ha delle proprietà e dei confini che non esistono più. Un mitologema odierno potrebbe essere la fantasia di eternità: la continua generatività. Di Micco ribatte: l’infinità sta nei limiti di un’energia che comunque è esauribile. Le immagini possono diventare propaganda, racconto strutturante e catartico, ma anche pervertibile: rientrano nelle catene di eros e thanatos. Il dispositivo etno-psicoanalitico in cui l’elemento meticcio si può rappresentare è angosciante per chi lo vive, non solo per chi lo accoglie. Le seconde generazioni sono coinvolte in un complesso processo di riappropriazione e riappartenenza.

Per necessità di sintesi non è possibile rendere la complessità dei collegamenti che si sono generati nello spazio-tempo di questo convegno. Tuttavia mi sembra centrale l’accento sulla funzione delle istanze mediatrici che a più livelli è rintracciabile nei diversi lavori proposti: una funzione mediatrice su un piano intrapsichico, ma anche socioculturale e collettivo, che sia in grado di ridimensionare le polarizzazioni e i conflitti, in uno scenario in cui il sessuale infantile, perverso polimorfo può assumere forme complesse e potenzialmente alienanti e dislocanti, se i confini non riescono a costituire degli argini. Il rischio presagito è quello di non riuscire a concepire e a contenere l’eccesso e l’indefinito in un campo allucinatorio dove le immagini percepite non possono essere rappresentate e quindi nemmeno rimosse. La psicoanalisi in tal senso ha la responsabilità etica di dire altrimenti e di essere spietata nei contesti teorico-clinici di sua pertinenza, al fine di dare forma e confini al desiderio e non colludere con l’illusione di una libertà che dilata di continuo i confini in uno scenario di onnipotenzialità e derive mortifere.    



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