Secondo Gianfranco Pellegrino «la fusione tra battaglie ambientaliste e lotte sociali è stata una vittoria di Pirro». Ma l’errore principale non è stata la sua radicalità, bensì la disconnessione dalla realtà delle persone a cui avrebbe dovuto saper parlare. La transizione non è l’aggiornamento tecnologico per cambiare la caldaia. Non si può fare senza un programma di redistribuzione del reddito: la transizione a queste condizioni fa ancora più spavento
Mi ha colpito molto quello che ha scritto Gianfranco Pellegrino su questo giornale: «La fusione tra battaglie ambientaliste e lotte sociali è stata una vittoria di Pirro», cioè il più grande degli errori tattici sotto i quali è stato sepolto l’ambientalismo, perché lo ha reso troppo radicale, massimalista e ideologico. Al contrario, secondo questa tesi, bisogna «separare di nuovo le cose», restituendo all’ambiente lo status di tema neutro, facendone una forma di decenza necessaria per stare al mondo, a prescindere dalle appartenenze.
Il problema è che niente di tutto questo funzionerebbe. Come ha scritto Federico Zuolo, sempre su Domani, lo spettro dell’ambientalista radical chic è una storia inventata dalla destra. In questi anni è diventato un bancomat di consenso, il capro espiatorio passepartout: per l’inflazione, per la deindustrializzazione, addirittura per gli stessi disastri ambientali.
A questa immagine gli ambientalisti si sono consegnati inermi, quasi rassegnati a vivere nella parodia disegnata dai propri avversari, a recitare quel copione permanente in cui si fanno poche docce per risparmiare acqua, guidano una Tesla e comprano detersivi sfusi, nutrendosi di bacche e grani antichi.
Come ogni stereotipo, per essere efficiente la bugia è stata impastata con la verità: l’errore principale dell’ambientalismo contemporaneo non è stata la sua radicalità, ma la disconnessione dalla realtà materiale delle persone a cui avrebbe dovuto saper parlare. La transizione non è semplicemente l’aggiornamento tecnologico per cambiare la caldaia e la dispensa del mondo.
I partiti e le istituzioni, soprattutto quelle europee, non hanno capito cosa significa farsi promotori di una decarbonizzazione profonda come un dimezzamento delle emissioni al 2030 e net zero al 2050: cambierebbe ogni aspetto della nostra vita, in modi bruschi, brutali e costosi, soprattutto per l’urgenza posta dal riscaldamento globale, che nel frattempo è su un piano inclinato sempre più veloce.
Non si può fare la lotta alla crisi climatica senza lotta alla povertà, non si può fare lotta alla povertà senza un programma di redistribuzione del reddito, perché i cambiamenti climatici fanno paura, ma la transizione a queste condizioni fa ancora più paura. Quella paura è il dato politico da cui ripartire.
Senza redistribuzione e senza politiche sul reddito non si può affrontare nessuna transizione, come ha dimostrato l’aspra lotta tra Sud e Nord globale alla COP29 di Baku e come mostra l’ostilità nei confronti del Green Deal. Pellegrino ha innescato un dibattito prezioso, che parte da una verità evidente: l’ambientalismo è finito in una buca e non sta trovando il modo di tirarsene fuori.
Sta perdendo senso perché è diventato un’ortodossia di regole, divieti e rinunce, che ti colpevolizza per come vivi, cosa mangi e come vuoi andare in vacanza. Ma anche in Italia esistono forme di ambientalismo popolare e non elitario, e andrebbero valorizzate, messe a sistema, trattate per quelle che sono: un patrimonio di proposte e idee per un progressismo sempre più asfittico.
Pellegrino cita la kefiah di Greta Thunberg come metonimia dell’eccesso di politica, ma Thunberg lo scorso autunno è andata a sostenere i lavoratori dell’ex GKN di Campi Bisenzio, uno dei progetti di transizione dal basso più concreti che ci sono in Italia. Gli Stati generali per il clima sono un percorso durato due anni, hanno aggregato decine di organizzazioni e hanno stilato un libro di proposte che sono un programma politico pronto all’uso, radicale e popolare.
Per ora, al pari dei lavoratori ex GKN, sono stati ignorati, ma è da iniziative così che bisogna ripartire. Invece i partiti hanno preso dai movimenti il lessico, cooptato occasionalmente degli attivisti quando c’era da fare liste elettorali, ma non si sono mai messi in ascolto, facendosi invece percepire (e a volte diventando) i più strenui difensori dello status quo istituzionale, fiscale e sociale.
L’ambientalismo ha un futuro, a patto che smetta di percepirsi come un pensiero «per l’ambiente» e forse anche di chiamarsi ambientalismo, che era un’idea del secolo scorso per risolvere problemi del secolo scorso. La crisi climatica in Europa è una crisi sanitaria, sociale, alimentare: il punto non è più solo l’ambiente, ma la società umana.
A quali condizioni l’Europa può reggere il doppio urto della crisi climatica (che è qui per rimanere) e della transizione (che è comunque innescata e non si fermerà)? Come si governa la nuova rivoluzione industriale partita da oriente, che noi ora stiamo solo subendo? Queste sono domande politiche, le risposte non avranno niente di neutrale.
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