«Il mio progetto piace a tutti», dice il presidente, che vuole il controllo Usa sull’area per trasformarla nella “riviera del Medio Oriente”. Ma da Parigi a Pechino passando dagli Stati arabi è un coro di no. Intanto Israele si ritira dal Consiglio diritti umani dell’Onu
«Il mio piano per Gaza piace a tutti». A meno di ventiquattro ore dal grottesco annuncio sul futuro della Striscia il presidente degli Stati Uniti Donald Trump dimostra di vivere in una bolla di onnipotenza e arroganza o di essere un maestro del bluff. In conferenza stampa alla Casa Bianca insieme al premier israeliano Benjamin Netanyahu, Trump ha tracciato il suo progetto.
Questo prevede la deportazione di 1.8 milioni di palestinesi, il controllo della Striscia che passerebbe agli Stati Uniti (anche con i soldati «se serve») e infine la ricostruzione che la farà diventare la nuova Costa Azzurra del Medio Oriente.
«Elimineremo tutte le bombe e le armi, rimuoveremo le macerie e garantiremo lo sviluppo economico del territorio», ha detto Trump. E sono bastate poche parole per ribaltare l’approccio storico di Washington basato sul concetto di due popoli e due stati. In pratica, Trump sembra voler mettere una pietra tombale alla creazione di un futuro stato palestinese.
Eppure, secondo il tycoon, tutti «amano» il suo piano. Ma da Parigi a Berlino, da Londra all’Onu, da Brasilia a Pechino le reazioni del mondo riportano una realtà opposta. Tutti i paesi arabi hanno respinto senza mezzi termini le sue dichiarazioni, a partire dall’Arabia Saudita che minaccia di far saltare la normalizzazione dei rapporti con Israele mediata da Washington.
L’Egitto e la Giordania hanno già fatto sapere che non sono disposti ad accogliere i rifugiati palestinesi sui loro territori. «Il futuro della Striscia di Gaza non deve essere visto nella prospettiva del controllo da parte di uno stato terzo, ma nel quadro di un futuro Stato palestinese, sotto l’egida dell’Autorità nazionale palestinese», ha puntualizzato il ministero degli Esteri francese.
Parigi si oppone anche allo spostamento forzato dei gazawi, considerato «una grave violazione del diritto internazionale» e «un attentato alle legittime aspirazioni dei palestinesi». Sulla stessa linea si pongono anche la Cina, la Spagna e il segretario Onu Antonio Guterres. Il governo tedesco si è detto «stupito» dall’annuncio metre il presidente Frank Steinmeier l’ha definito «inaccettabile». Insomma, il piano del presidente americano ancora prima di essere messo a punto viene rispedito al mittente.
Non solo. «Il progetto di Trump per Gaza non è destinato a funzionare, ma è proprio questo il punto», titola invece il giornale (conservatore) Jerusalem Post, secondo il quale si tratterebbe di un bluff volto a raggiungere un obiettivo più accettabile. Molti in Israele non ci credono fino in fondo. «Penso che siamo tutti d’accordo che dovrebbe essere chiesto il consenso: il consenso delle persone a lasciare il luogo in cui vivono e il consenso degli altri paesi a riceverle», ha detto l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Danny Danon poco prima che il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar annunciasse il ritiro di Israele dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu.
«La discriminazione nei nostri confronti è chiara – ha detto Sa’ar motivando la decisione – nel Consiglio Israele è l’unico paese con un punto all’ordine del giorno dedicato esclusivamente a lui. Israele è stato sottoposto a oltre 100 risoluzioni di condanna, oltre il 20 per cento di tutte le risoluzioni mai approvate nel Consiglio, più di quelle contro Iran, Cuba, Corea del Nord e Venezuela messi insieme».
(In)Fattibilità
Nel mondo di Trump le sue idee su come ridisegnare il Medio Oriente riscuotono grandi plauso. I paesi arabi vicini «sarebbero felicissimi» del progetto, ha detto il tycoon in conferenza stampa. Ma Cairo e Amman non sono intenzionati ad accettare 1.8 milioni di palestinesi sul loro territorio. Non hanno neanche i mezzi e le infrastrutture giuste per ospitare una mole così grande di persone.
Mettere in piedi un sistema di accoglienza simile impiega molto tempo e soprattutto molte risorse per l’intero apparato logistico, che invece potrebbero essere destinate alla ricostruzione di Gaza, stimata al momento in oltre 40 miliardi di dollari. Senza considerare che il piano, così come annunciato, troverà l’ovvia resistenza del popolo palestinese. Inoltre, nessuno stato arabo può accontentare le richieste di Trump, soprattutto per questioni di consenso politico interno oltre che economico.
E, infine, un controllo militare statunitense rischia di essere l’ennesimo pantano per Washington dopo l’Iraq e l’Afghanistan, benché la conformazione geografica e lo spazio siano diversi. Ma se l’Idf con la sua esperienza e i suoi potenti mezzi militari non è riuscito ad eliminare Hamas – come dimostrano gli show per il rilascio degli ostaggi da parte dei miliziani – come possono riuscirci gli Usa senza replicare l’inferno di questi 15 mesi di guerra? Hamas ha detto che si opporrà e che «continuerà a resistere».
Un possibile boomerang
Il piano di Trump rischia però di rivelarsi un boomerang per gli Stati Uniti e Israele agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, dove c’è già molta critica e pressione nei confronti di Tel Aviv. La deportazione dei palestinesi non farà altro che rafforzare la posizione mediatica di Hamas e il suo consenso fuori dalla Striscia. Diverse piazze si sono già riempite di manifestanti.
L’annuncio a Washington rischia anche di avere un contraccolpo sui negoziati attuali per la seconda fase della tregua, dopo mesi di strenue trattative.
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