di Viviana Mazza
Allarme dei Paesi Arabi e in Europa. E la Casa Bianca «corregge»: «Il presidente non si è ancora impegnato per l’invio di truppe nella regione»
DALLA NOSTRA INVIATA
WASHINGTON – C’è stato un sussulto nella East Room della Casa Bianca tra i 150 giornalisti di ogni Paese del mondo quando Donald Trump ha pronunciato le parole «take over» e «long-term ownership position» proponendo che gli Stati Uniti prendano il controllo e il possesso a lungo termine della Striscia di Gaza per ricostruirla e trasformarla nella «Riviera del Medio Oriente». «Ci vivrà la gente del mondo, penso che si possa trasformare in un posto internazionale, un posto incredibile». Un annuncio epico, storico, scioccante, inaspettato che non era parte del discorso iniziale, ma è emerso attraverso le sue risposte ai giornalisti. Al fianco del presidente americano, il premier israeliano aveva un sorriso di compiacimento stampato sul volto. «Vedi cose che gli altri rifiutano di vedere», ha detto a Trump, aggiungendo che questa proposta potrebbe «cambiare la Storia».
Subito tutti si sono chiesti se si tratti di un vero piano. Trump ha dichiarato che l’unica ragione per cui i palestinesi vogliono stare a Gaza è che «non hanno scelta» e, se si costruiscono alloggi e belle città per loro altrove, si è detto convinto che non vorranno tornare più, sollevando lo spettro di un trasferimento permanente di due milioni di persone; poi in conferenza stampa ha dichiarato che tra la gente che potrebbe vivere nella nuova Gaza ci saranno i palestinesi.
Deputati e senatori del partito democratico hanno dichiarato: «Folle», «Sono senza parole». Le organizzazioni per i diritti umani hanno parlato di un tentativo di «pulizia etnica» e di rimozione forzata dei palestinesi in violazione del diritto internazionale. Deputati repubblicani come Nancy Mace esultavano: «Trasformiamo Gaza in Mar-a-Lago», ma altri come il senatore dello stesso Stato Lindsay Graham definivano il piano «problematico» e il fatto che Trump non abbia escluso l’invio di militari americani a Gaza come qualcosa che non piacerà agli elettori; il Wall Street Journal osservava: «È più espansionismo che isolazionismo».
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Subito si sono diffuse due interpretazioni: la prima è che sia un bluff, come i dazi contro il Messico e il Canada, controversi quanto effimeri. Un modo per dire ai Paesi arabi: «Posso rendere le cose molto peggiori per voi, se non mi venite incontro». E forse un modo per incoraggiare gli alleati di estrema destra di Netanyahu ad andare avanti con il cessate il fuoco. L’altra interpretazione è che ci sia qualcosa di serio dietro la proposta, perché unisce due ossessioni di Trump — l’ambizione di realizzare la pace in Medio Oriente e l’istinto immobiliarista — e da mesi pare che ne parli con il genero Jared Kushner e l’inviato per il Medio Oriente Steve Witkoff.
Le parole della portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ieri vanno nettamente nella direzione della prima interpretazione (senza escludere aspetti della seconda): il presidente «non si è ancora impegnato per l’invio di truppe nella regione» e «il fatto di non escludere nulla è una leva negoziale»; Leavitt ha specificato che non verranno usati fondi americani per Gaza; ha concluso che Trump «arriverà ad un accordo con i Paesi arabi» dai quali si aspetta che «facciano di più e ospitino temporaneamente i rifugiati» mentre Gaza viene ricostruita (la stima è di 10-15 anni) «per i palestinesi e per tutte le persone che amano la pace». Anche il segretario di Stato Marco Rubio ha suggerito che il trasferimento dei palestinesi sarà temporaneo, «durante la ricostruzione».
Riad ha «respinto in modo inequivocabile» il piano. L’Egitto ha specificato che gli aiuti devono avvenire mentre i palestinesi restano a Gaza. Il re Abdallah di Giordania e il presidente egiziano Al-Sisi verranno alla Casa Bianca nelle prossime settimane. Meno notata tra le polemiche, c’è stata un’apertura di Trump per l’Iran: ha detto che vuole l’accordo sul nucleare e gli ayatollah aspettano ora un suo messaggio diretto.
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