30 euro al giorno per 15 ore di lavoro

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Il campo di Ciappe Bianche dove vivono lavoratori stranieri – Rapisarda

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Alzi gli occhi verso l’alto e, in cima ad una collinetta, svetta il santuario della Madonna della Consolazione. Abbassi lo sguardo e, su un terreno a fianco ad un deposito di auto usate, vedi tende e baracche. Due cartoline separate da una linea: lì su il cuore di una terra dalla storia plurimillenaria, qua giù una terra di nessuno con un’umanità smarrita. Siamo a Paternò, tra la maestosità dell’Etna e gli agrumeti della Valle del Simeto. Ci immettiamo in una strada sterrata e capiamo di essere arrivati quando su un’inferriata vediamo indumenti e scarpe lasciati ad asciugare. Pochi passi, tra ruderi e spazzatura, ed ecco il campo trasformato in ritrovo e rifugio di decine di immigrati. «Sono soprattutto tunisini e marocchini, dai 20 ai 30 anni, vivono qui senza luce e senz’acqua», ci dicono i volontari della Caritas. Gli stessi con cui ci avviciniamo per parlare con alcuni di loro. Tutti raccontano una realtà di sfruttamento, spesso nelle mani dei “caporali”. Ma sono una forza lavoro indispensabile per la raccolta di agrumi di eccellente qualità, che da questa porzione di Sicilia conquistano poi i mercati del Nord Italia e di buona parte dell’Europa.Ogni mattina, alle prime luci dell’alba, i caporali si presentano per selezionare chi potrà lavorare nei campi: «Tu sì, tu no». La scelta non è casuale, ma segue una turnazione. «Sono i rumeni a decidere», ci dice un ragazzo. La competizione tra disperati è feroce. È una lotta tra “ultimi” e “penultimi”.

Lavoratori nei campi di Paternò

Lavoratori nei campi di Paternò – Rapisarda

Firas è un tunisino di 30 anni, ha uno sguardo stanco. Da giostraio ad Ispica, a bracciante a Paternò. «Sono arrivato a Lampedusa nell’agosto 2022 – racconta – dopo 17 ore in mare su una barca sovraccarica, abbiamo pregato, quando per tre volte di fila si è spento il motore in mezzo al Mediterraneo». Ma quello che ha trovato non è il futuro che sognava: «Lavoriamo 15 ore per raccogliere arance, 90 centesimi a cassa, a fine giornata arrivo a 30 euro. È massacrante, ma non ho scelta». Come tutti gli altri – una sessantina – che qui vivono. Non tutti impegnati in campagna. Mohamed fa il saldatore. Partito da Casablanca, attraversando il Nord Africa, ha seguito la rotta dei Balcani per entrare in Italia. Sei mesi in viaggio, a piedi o con mezzi di fortuna. «Ho provato a frequentare la scuola, ma – dice – gli orari del lavoro non mi permettono di frequentare con regolarità».

È pomeriggio, però fa freddo. Moustafa è a piedi nudi, indossa degli infradito: «Ho solo queste, cerco un paio di scarpe». A nessuno, però, manca un cellulare. Non uno sfizio né un lusso. È la cosa più preziosa che posseggono: è l’unico canale per comunicare, l’unica finestra sul mondo. Serve per parlare con i familiari e dare la disponibilità al lavoro. Ricaricarlo ha un valore vitale: «Per attaccarlo ad una presa, andiamo in qualche bar, ma ci chiedono anche 1 euro l’ora». È così per i disperati senza un tetto. «Non riusciamo a trovare un posto dove abitare, qui a Paternò – dice Souhail – non affittano a stranieri, siamo costretti a vivere in queste tende». In realtà, c’è chi affitta, ma la richiesta di gente senza scrupoli può arrivare a 100-150 euro a posto letto. In una sola abitazione – si racconta – c’è chi ha ammassato una decina di immigrati.

La vita a “Ciappe Bianche” non è solo dura. È pericolosa. Quasi un anno fa un giovane di 24 anni è stato ucciso durante una lite. Qualche mese dopo, una rissa ha provocato il ferimento di un ragazzo con un coltello. «Siamo tutti qui per sopravvivere – interviene Firas – Quando hai fame e non trovi lavoro, è facile che nascano problemi, ma desideriamo solo una vita migliore».

Dà una grossissima mano la Caritas vicariale: i volontari sono tra i pochi a regalare sorrisi ed assistenza. La “Bisaccia del Pellegrino” e l’associazione Ampas distribuiscono pasti caldi e indumenti, oltre a dare la possibilità di una doccia. «Cerchiamo di restituire loro un po’ di dignità, sanno che possono fidarsi di noi, ma le loro necessità sono immense», dice Salvatore Mazzamuto, mentre due ragazzi, dal fondo della strada, portano delle canne e dei pannelli di plastica. Servono a fare un riparo di fortuna, prima che faccia buio. Sono loro gli ultimi arrivati.

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