Il caro energia minaccia le ceramiche: «Con questi costi rischiano la chiusura»

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Casalgrande È un vero e proprio grido d’allarme, quello che lancia l’industria ceramica che proprio qui in Emilia Romagna ha da sempre il distretto più importante a livello europeo. «Quello del caro-energia – spiega Franco Manfredini presidente di Casalgrande Padana nonché a capo della Commissione energia di Confindustria Ceramica – è un tema che riguarda tutti, famiglie e imprese, sempre più spesso alle prese con una crescita dei costi che sembra ogni giorno sul punto di esplodere». E se da un lato le famiglie si trovano a fronteggiare bollette sempre più pesanti, dall’altro le imprese fanno quotidianamente i conti con un costo dell’energia che sta crescendo molto di più che in altri paesi europei, come Germania e Francia. Tra le stesse imprese, poi, non tutte le crisi sono uguali se è vero che a soffrire di più oggi sono i comparti cosiddetti energivori, di cui quello ceramico è il capofila.

I guai del settore
«Il nostro caso – spiega Manfredini che, all’interno di Confindustria Ceramica è il presidente della Commissione Energia – è ancor più grave perché per le nostre imprese, ai costi già alti dell’energia per fattori congiunturali come possono essere i conflitti in atto nel mondo o i dazi di cui tanto si parla, si aggiungono gli oneri, oggettivamente pesanti del Meccanismo Ets (Emission trading system ovvero sistema di scambio di quote di emissioni di gas a effetto serra ed è il principale strumento adottato dall’Unione europea per raggiungere gli obbiettivi di decarbonizzazione nei settori industriali, ndr) che nei prossimi anni sono destinati ad aumentare progressivamente. E questo per il fatto che l’Unione europea ha deciso di arrivare ad azzerare il consumo di energia da carbon fossile».

Si tratta di un obiettivo troppo ambizioso? «Più che altro lo definirei impossibile da raggiungere. A meno di clamorose e inattese scoperte che oggi non sono all’orizzonte, per quella che è la nostra produzione, le imprese ceramiche non hanno alternative a questa fonte di energia. In questi anni non abbiamo mai smesso di investire in ricerca e la prova sta nel fatto che proprio le centraline che abbiamo installato nei nostri stabilimenti registrano un livello di salubrità dell’aria che è di gran lunga migliore di quello che si registra nelle città. Purtroppo però i costi crescenti – legati proprio al Meccanismo Ets che impone alle imprese di acquistare quote di CO2 per compensare quelle che vengono emesse durante la lavorazione nei forni – hanno già avuto di fatto, come conseguenza, il blocco degli investimenti. Il rischio ora riguarda i posti di lavoro e la delocalizzazione della produzione».

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I rischi all’orizzonte

Da esportatori rischiamo di dover essere obbligati a importare, quindi?

«Il rischio è concreto, anche perché al di fuori dell’Europa questi oneri legati al meccanismo Ets non esistono, e le imprese concorrenti possono così produrre a costi più vantaggiosi. In casa nostra invece, siamo costretti a bloccare gli investimenti per cercare di salvare la produzione e i posti di lavoro. Prima di questa tempesta, il fatturato del comparto viaggiava sui 7 miliardi e costituiva il 5% del surplus commerciale italiano. Ora la situazione è cambiata e a rischio ci sono 20mila posti di lavoro, che possono raddoppiare se consideriamo l’indotto».

Le richieste all’Ue Voi all’Europa cosa chiedete?

«Chiediamo all’Europa di estendere al nostro settore le deroghe all’applicazione del sistema Ets, già previste per settori produttivi come quello dell’acciaio e del cemento. E questo per darci la possibilità, nel tempo, di poter disporre di vettori energetici alternativi. All’Europa diciamo che anche noi vogliamo essere protagonisti del cambiamento e lo dimostra il fatto che ad esempio, alla Casalgrande Padana l’energia elettrica è già oggi prodotta sul posto, secondo criteri di massima efficienza. Aggiungo che proprio ciò che produciamo è estremamente sostenibile, dal momento che la ceramica ha un ciclo di vita che non richiede azioni di bonifica. Insomma, noi siamo già attori del cambiamento. A patto che ciò non finisca per farci chiudere. E in questo momento – conclude Manfedini – aderire alle direttive senza deroghe per noi significa chiudere».l © RIPRODUZIONE RISERVATA



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