Le scarpe dei fedeli all’ingresso della moschea Al Rawda indicano chi viene dai campi profughi e chi da altre parti di Tulkarem. Quelle sporche di fango appartengono ai residenti dei due campi alla periferia della città . Lì tante strade non esistono più: sono state scavate e distrutte dalle ruspe dell’esercito israeliano, per eliminare ordigni nascosti sotto l’asfalto dai «terroristi» come le autorità israeliane descrivono i combattenti palestinesi e non solo loro. Le truppe dello Stato ebraico da Jenin hanno allargato l’«operazione di sicurezza», denominata «Muro di Ferro», in corso in Cisgiordania da oltre due settimane, ai distretti di Tulkarem, Tubas e Nablus. E quando avanzano nei campi profughi, con i blindati Eitan e Tigre e la copertura di droni ed elicotteri, i civili scappano dalle loro case. Il capo del Comitato popolare locale, Faisal Salama, stima che l’80% dei 15.000 abitanti del campo profughi principale (l’altro è il Nur Shams) siano sfollati.
Al Rawda è una delle moschee di Tulkarem che ospitano decine di famiglie senza più una casa. È presto, la sala di preghiera principale è vuota. In quella accanto una ventina di uomini dormono su materassi sottili con le coperte tirate su fino a coprire la testa. Le donne e i bambini piccoli sono al piano di sopra. Mahmoud Abed Rabbo, 81, è sveglio. Seduto davanti a un leggio, racconta quando, qualche giorno fa, è stato costretto a scappare. «I soldati israeliani ci hanno intimato di lasciare casa, non abbiamo avuto il tempo di prendere qualcosa» ci dice «hanno fatto lo stesso con mia cognata nell’abitazione accanto. Poi hanno distrutto le nostre abitazioni». Poco alla volta si svegliano tutti. I ragazzi ci osservano da lontano, gli adulti invece si avvicinano, hanno tanto da raccontare. Le storie si assomigliano: arresti notturni, perquisizioni, ruspe blindate che sventrano le strade e edifici, droni con altoparlanti che intimano di lasciare subito il campo profughi. Allam Yassin, 34 anni ci dice che il fratello è stato ferito dagli spari dei soldati israeliani: «Di lui non ho più saputo nulla, non posso andare all’ospedale, è circondato». Ci avviamo verso l’ospedale «Thabet Thabet» che dista poche centinaia di metri dalla moschea. Questa parte di Tulkarem è vuota, le saracinesche dei negozi sono tutte abbassate. L’ospedale però non è raggiungibile, i soldati israeliani armi in pugno tengono tutti a distanza. Un’ambulanza viene fermata e controllata minuziosamente.
Proseguiamo per Jenin. Gli autisti palestinesi più esperti sanno come aggirare i posti di blocco, almeno quelli più importanti che sono chiusi quasi tutto il tempo da quando è cominciata «Muro di ferro». Il percorso da fare è più lungo e a bassa velocità . Le strade il più delle volte non zono asfaltate. Però non incontriamo forze militari significative. Omar, taxista che conosce ogni metro del nord della Cisgiordania, ci spiega che l’esercito israeliano «concentra uomini e mezzi intorno a certe città e villaggi, poi lancia attacchi improvvisi in determinati quartieri e zone. Arresta i più giovani che trova nelle case, dall’alto i cecchini tengono sotto tiro ogni punto intorno a loro». Sono almeno 70 i palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno, 50 durante «Muro di ferro», gran parte dei quali a Jenin. Mentre andiamo a nord, i siti d’informazione palestinesi aggiornano le notizie: «Questa mattina le forze di occupazione hanno fatto saltare in aria un appartamento nella zona di Krom Ashour a Nablus e hanno fatto irruzione in diverse abitazioni della città , due giovani sono stati arrestati». I raid dell’esercito, oltre a Jenin e Tulkarem, si concentrano sull’area tra Tamoun e il campo profughi di Farah dove le condutture idriche sono state danneggiate e l’elettricità manca per gran parte del giorno. Diverse abitazioni sono state trasformate in celle e centri di interrogatorio.
Finalmente Jenin. Omar ci porta a poche decine di metri dall’ospedale governativo di Jenin. La strada che lo costeggia non c’è più, gravi i danni ai suoi lati. Le ambulanze sono costrette ad infilarsi nel fango e tra pietre e pezzi di asfalto per raggiungere il complesso medico. Davanti all’ospedale transitano una jeep israeliana e una ruspa. Boati rompono il silenzio che regna nella zona. Domenica scorsa l’esercito ha fatto saltare con l’esplosivo 23 edifici nel centro del campo profughi della città per impedire, ha detto un portavoce, «che vi si stabilissero infrastrutture terroristiche». Si è riferito ai combattenti di varie formazioni palestinesi che in Jenin hanno la loro storica roccaforte. Una resistenza, non solo armata, che anche l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen ha provato a spegnere proprio nelle settimane precedenti all’invasione israeliana della città . Un’operazione di «sicurezza» simile negli obiettivi a quella di Israele, e in cui sono rimasti uccisi 15 palestinesi, tra cui una giovane giornalista.
«Come medico e direttore di questo ospedale posso affermare che nei nostri reparti sono giunti negli ultimi giorni solo civili, alcuni morti, altri feriti, gente innocente», riferisce il dottor Wissam Bakr. «L’altro giorno il fuoco dei soldati israeliani ha colpito e ucciso un anziano di 73 anni che stava tornando a casa da dove era stato evacuato» racconta. «Abbiamo grosse difficoltà nel raggiungere le persone ammalate o ferite – denuncia Bakr – perché le truppe israeliane bloccano o ostacolano i movimenti delle ambulanze e del personale paramedico. Persino seppellire i morti è stato un problema. Gli ospedali e il personale sanitario devono essere tutelati in ogni circostanza. Siamo molto preoccupati, Jenin sta diventando un’altra Gaza». È tragico il quadro della situazione nella città che fa il sindaco Mohammed Jarrar. «Gli uccisi sono almeno 26, i feriti decine e altrettanti gli arrestati. Non solo il campo profughi, anche quattro quartieri di Jenin sono isolati e occupati dai soldati», esordisce accogliendoci nel suo ufficio. «La rete idrica è stata danneggiata, nelle case arriva il 35% di acqua in meno. L’elettricità viene interrotta di continuo, il problema più grave ed urgente sono gli sfollati, facciamo il possibile per aiutarli, però aumentano ogni giorno. 6mila li ospitiamo in città , altre migliaia sono fuggiti nei villaggi circostanti».
La distruzione del campo profughi è una possibilità concreta. Pesa il precedente del 2002, nel pieno della seconda Intifada. Le demolizioni di case – 150 a Jenin e in altri centri abitati, secondo dati non ufficiali – sono all’ordine del giorno. Di sicuro, avvertono i palestinesi, distruggendo file intere di abitazioni, l’esercito vuole dividere in più parti il campo profughi. Vorremmo avvicinarci al centro del campo. Impossibile ci dice Atef, che ci accompagna. Ci suggerisce di andare verso la parte alta del campo. Anche qui le distruzioni di case e infrastrutture sono enormi. «Risalgono ai primi giorni dell’invasione, con le ruspe hanno aperto tutte le strade che dall’alto portano alla parte bassa del campo», ci spiega un uomo mostrandoci le case date alle fiamme, inclusa quella del suo vicino completamente divorata dal fuoco.
Moyedin Al Saadi non riesce ad accettare l’uccisione del figlio Tammam, 27 anni, un paramedico. «Al mattino aveva soccorso diverse persone nel campo, poi è tornato a casa per un’ora di riposo. A sera ci hanno chiamato per dirci che era stato ucciso da un drone israeliano» racconta commosso, circondato dagli altri figli e dai nipotini. «Amavo Tammam – aggiunge mentre un bambino gli stringe la mano destra – era un figlio bravo e generoso. Era un infermiere di ambulanza, aiutava ammalati e feriti. Tammam non aveva fatto nulla di male. Me lo hanno portato via».
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