Trump o non Trump, dopo il 7 ottobre nulla può essere come prima: neanche le proposte di soluzione – Israele.net

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E’ stato detto mille volte che Gaza è una “prigione a cielo aperto”. E allora si inizi perlomeno ad aprirne le porte. I palestinesi di Gaza sono l’unica popolazione a cui la comunità internazionale, e Hamas, proibiscono di lasciare una zona di guerra ed emigrare

Il mondo dell’informazione trabocca di derisione e condanna del cosiddetto piano Trump su Gaza. Spesso con validi argomenti. Ma non viene dato spazio alle voci che propongono approcci e ragionamenti diversi. Eppure anche queste presentano argomenti degni di interesse.

In questa pagina diamo spazio a voci fuori dal coro, nella convinzione che non è mai sana né utile una discussione a senso unico basata su idee assiomatiche.

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Attila Somfalvi

Scrive Attila Somfalvi: Come suo solito Trump sta sondando il terreno, e ci sta riuscendo, preponendo qualcosa che l’establishment politicamente corretto condanna ancora prima che si vi sia stata una discussione seria sulle sue implicazioni.

È del tutto possibile che si tratti di un piano completamente folle, con probabilità prossime allo zero di concretizzarsi. C’è anche una significativa possibilità che si tratti di un piano molto cinico, pensato per garantire agli amici ultra-ricchi di Trump in Arabia Saudita, Qatar e Stati Uniti un pezzo di terreno di buona qualità in riva al mare, in base al calcolo che una volta che due milioni di persone si sono allontanate per un lungo periodo, le probabilità che tornino sono praticamente nulle. In altre parole, potrebbe non essere altro che un trasferimento più o meno forzato in stile colonialista, mirato a incanalare trilioni nelle tasche dei più ricchi tra i ricchi.

Eppure, questa idea merita un serio dibattito pubblico. Innanzitutto perché né la destra né la sinistra, in Israele come altrove, hanno nulla di meglio da offrire. Niente. Nada. Il sistema politico, in Israele e altrove, è incapace di produrre idee nuove che possano cambiare l’intollerabile realtà che Gaza continua a generare.

Il 7 ottobre non è stato solo un giorno di atrocità. E’ stato una rivoluzione copernicana che ha dato origine a una realtà politica e geopolitica completamente nuova. E’ impossibile trattare questa nuova realtà come una pallida copia di ciò che esisteva prima. Semplicemente non può funzionare.

Senza cadere nella solito cliché su Einstein e la ripetizione sempre uguale di esperimenti falliti, forse è giunto il momento di porre domande che non siano più vincolate dalle catene di una paralizzante correttezza politica: la stessa mentalità che per troppi anni ha impedito di fare davvero i conti con i problemi fondamentali e intrinseci, insiti nel DNA del conflitto israelo-palestinese.
(Da: YnetNews, 7.2.25)

Yaakov Katz

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Scrive Yaakov Katz: Il piano del presidente Donald Trump per la striscia di Gaza ha catturato l’attenzione come una proposta apparentemente stravagante per degli israeliani che sono alla disperata ricerca di una visione postbellica.

Di per sé, la proposta solleva numerose domande: chi sarebbe incaricato di evacuare Gaza? Dove andrebbero gli abitanti? Chi ricostruirebbe dalle macerie? E, forse la cosa più importante, chi sarebbe autorizzato a tornarci in futuro? Sono domande che, in questa fase, rimangono in gran parte senza risposta. Non è nemmeno chiaro se il piano possa davvero essere definito un “piano”.

Eppure, nonostante le evidenti lacune, l’aspetto più importante è il messaggio che il piano invia alla comunità internazionale. E cioè: lo status quo a Gaza non è più sostenibile.

La comunità internazionale, insieme a Israele e Autorità Palestinese, ha a lungo perseguito la soluzione a due stati come unica via praticabile per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Questo assunto è stato il principio guida per decenni, ma non è riuscito a portare alla pace. Tutt’altro.

Consideriamo il passato. Israele si ritirò dalla Cisgiordania a metà degli anni ’90, col risultato d’essere investito da un’ondata di devastanti attentati suicidi che scossero la nazione.

Nel 2005 Israele si ritirò dalla striscia di Gaza, col risultato di vedere Hamas prenderne il controllo un paio di anni dopo. Da allora il ciclo violento di attacchi da Gaza e reazione di Israele si è ripetuto quasi ogni anno, senza una fine in vista.

Eppure, nonostante questa storia, la comunità internazionale e alcuni segmenti dell’establishment politico israeliano restano aggrappati alla soluzione dei due stati come unico possibile obiettivo finale. Questa ostinazione anche di fronte al ripetuto fallimento è sconcertante. …

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Gli israeliani sono esasperati del logoro mantra delle “soluzioni” già tentate, sempre rifiutate dai palestinesi e sempre sfociate in altra violenza e altro sangue

Questo è il contesto delle recenti dichiarazioni di Trump, che suggeriscono un approccio completamente diverso: la soluzione a due stati è fallita ed è tempo di ripensare l’intero quadro del conflitto.

In sostanza, il messaggio della proposta di Trump è inequivocabile: non si può permettere a Hamas di mantenere il controllo di Gaza. Negli ultimi due decenni, Gaza è stata un costante focolaio di violenza.

Certo, le operazioni delle Forze di Difesa israeliane e la distruzione di gran parte delle infrastrutture militari di Hamas ritarderanno di molto il prossimo ciclo di ostilità. Ma a meno che Hamas non venga sradicata completamente, la prossima guerra è semplicemente una questione di tempo.

L’idea di Trump si avventura su terreni inesplorati. Va oltre la semplice richiesta di rimuovere Hamas. Riconosce che Gaza è stata un disastro. Gli egiziani non volevano Gaza. Israele non la voleva. L’Autorità Palestinese non aveva nessuna possibilità di controllarla.

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Ancora oggi, dopo 16 mesi di guerra, ai paesi arabi importa ben poco della sorte della popolazione di Gaza. Nonostante condivida un confine diretto con Gaza, l’Egitto non ha mostrato alcuna disponibilità ad accogliere dei palestinesi. Allo stesso modo la Giordania e l’Arabia Saudita, geograficamente vicine, si sono ben guardate dall’accogliere persone sfollate.

Questa è la triste verità: al mondo arabo non interessa realmente la popolazione di Gaza. Questa dura realtà non può essere ignorata. Sebbene l’idea di Trump sia estrema, non dovrebbe essere semplicemente liquidata come totalmente irrealistica.

La situazione a Gaza richiede un cambiamento fondamentale di strategia. Finché Hamas controllerà Gaza, finché Gaza rimarrà impantanata nella povertà e nella distruzione, finché organizzazioni come l’UNRWA continueranno a finanziare la perpetuazione del conflitto, il ciclo della violenza continuerà.

Per spezzare questo ciclo, è necessario prendere in considerazione soluzioni alternative. L’idea data per scontata negli ultimi 30 anni è fallita. Sebbene la proposta di Trump possa sembrare stravagante, a volte le idee drastiche sono l’unico modo per risvegliare il mondo dall’autocompiacimento. …
(Da: Jerusalem Post, 7.2.25)

Mark Lavie

Scrive Mark Lavie: Il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di assumere il controllo di Gaza, spostare i palestinesi e trasformare l’enclave in un paradiso turistico non funzionerà. Ma questo non rende la proposta priva di significato.

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I critici sbagliano a liquidarla a priori. I sostenitori sbagliano altrettanto a chiedere a gran voce che la si applichi subito.

Innanzitutto, sgomberiamo il campo da alcuni equivoci. Non tutti gli israeliani che sostengono il piano sono coloni di Cisgiordania o estremisti di destra, la Giordania e l’Egitto non possono accogliere i palestinesi di Gaza, e il piano di Trump non va preso alla lettera come se fosse un vero e proprio progetto strutturato per il futuro. Non è così, è solo un punto di partenza per un nuovo approccio.

Il trauma del 7 ottobre 2023, quando migliaia di terroristi e “civili” palestinesi hanno sfondato il confine di Gaza e fatto irruzione in Israele uccidendo, bruciando e violentando più di 1.200 israeliani e trascinandone altri 240 in una crudele prigionia nei tunnel del terrorismo, si riflette nelle reazioni israeliane alla proposta di Trump.

… Sondaggi lampo condotti dai media israeliani mostrano un sostegno di circa il 70% all’idea di Trump di spostare i palestinesi da Gaza. Ciò dimostra quanto gli israeliani siano esasperati del logoro mantra della “soluzione a due stati”: non solo a causa del massacro del 7 ottobre, ma anche a causa del ripetuto rifiuto da parte della dirigenza palestinese di tutte le offerte israeliane di creare uno stato palestinese in Cisgiordania, Gaza e parti di Gerusalemme.

Solo due anni fa, circa metà dell’elettorato israeliano affermava di poter accettare la creazione di uno stato palestinese alle giuste condizioni. Ma con le atrocità del 7 ottobre, Hamas ha ucciso la soluzione a due stati insieme alle vittime israeliane …

Quindi, benché il piano di Trump si presenti come impossibile e persino pericoloso, anche solo discuterne serve a mettere in secondo piano la formula della “soluzione a due stati” e spostare l’attenzione sui paesi arabi, e in particolare sull’Arabia Saudita e sulla possibilità di normalizzare le sue relazioni con Israele.

Ovviamente i sauditi insistono che la formazione di uno stato palestinese sarebbe un elemento di questo processo, ma le dichiarazioni saudite degli ultimi anni hanno fatto capire che l’effettiva creazione di tale stato (che i palestinesi stessi non vogliono accanto a Israele) non è una vera precondizione per i legami con Israele. Gli basterebbe che si avviassero nuovamente dei negoziati israelo-palestinesi, anche nell’ipotesi che, come in passato, non portino da nessuna parte.

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Coinvolgere in prima persona i sauditi è la chiave per un Medio Oriente diverso. Sono loro l’elemento musulmano sunnita più forte nella regione, l’unico che può costruire una coalizione regionale per fronteggiare l’Iran sciita. Il che è chiaramente nell’interesse di Israele e degli Stati Uniti.

E un giorno, quella coalizione potrebbe imporre una soluzione a Israele e palestinesi, tracciando un confine e facendolo applicare. Israele, come membro della coalizione, potrebbe avere una voce in capitolo. Ma comunque andasse a finire, ci sarebbe una forza internazionale al suo posto, e non i soldatini di latta delle Nazioni Unite, faziosi e inutili, specializzati nel voltarsi dall’altra parte.

La proposta di Trump potrebbe cambiare l’approccio della diplomazia mediorientale spingendola a guardare alla regione nel suo insieme, e non focalizzarsi unicamente sulla porzione del conflitto che vede in causa solo due parti, Israele e palestinesi. In effetti, lo sta già facendo.
(Da: Jerusalem Post, 7.2.25)

Giora Eiland

Scrive Giora Eiland: Si immagini un bravo diplomatico che arriva da un’altra galassia e gli viene spiegata la “soluzione a due stati”. Resterebbe sconcertato: “Perché stipare 15 milioni di ebrei e palestinesi in uno stretto lembo di terra fra il fiume Giordano e il mare, dividendola in due stati? A est c’è la Giordania, una landa per lo più disabitata. A sud-ovest il Sinai, tre volte più grande di Israele con solo 600mila persone. Poco più a sud di Eilat c’è l’enorme deserto saudita. Perché – si domanderebbe – i terrestri sono ossessionati dalla ‘soluzione dei due stati’ e insistono che non è solo la migliore, ma l’unica opzione?”

Questa soluzione si basa su quattro presupposti accettati da decenni senza discutere: che il conflitto debba essere territorialmente risolto in quella stretta striscia di terra; che è indispensabile uno stato palestinese pienamente sovrano; che Gaza e Cisgiordania devono far parte di un unico stato; che il confine di Israele con uno stato palestinese debba essere basato sulle linee in vigore nei diciotto anni fra il 1949 e il 1967, con solo piccoli aggiustamenti.

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Ogni tentativo di attuare un piano su questi presupposti è fallito: è ora di rivedere i presupposti.

La proposta di Trump è tutt’altro che illogica se si considerano tre fattori. In primo luogo, dovremmo guardare i numeri. Il Sinai è 167 volte più grande di Gaza, ma la sua popolazione è solo un terzo di quella di Gaza: la densità di popolazione di Gaza è 500 volte quella del Sinai. Se il mondo vuole davvero aiutare i palestinesi di Gaza, Trump sta indicando la giusta direzione.

In secondo luogo, il 75% dei residenti di Gaza è titolare dello status di profugo riconosciuto dall’Onu, il che significa che affermano di trovarsi a Gaza temporaneamente. Ciò contraddice i proclami palestinesi secondo cui Gaza è la loro terra e da lì non se ne andranno mai. Devono decidere una volta per tutte: sono profughi in cerca di ricollocazione o sono persone radicate in quella striscia di terra come terra-patria?

In terzo luogo, durante la guerra in Ucraina oltre due milioni di civili si sono trasferiti temporaneamente in Polonia e Moldavia. Perché questo approccio è considerato logico in Europa, ma non in Medio Oriente? Nel corso della storia, le guerre hanno determinato lo sfollamento di decine di milioni di persone (ebrei compresi ndr), rimodellando in modo permanente i confini. …

Adesso Hamas spinge centinaia di migliaia di persone verso la striscia di Gaza settentrionale, in un’area senza tende né le minime infrastrutture idriche. E si preme per fornire loro rifugi e bulldozer per ricostruire, mentre la guerra non è finita e gli ostaggi non sono ancora tornati tutti a casa. Questo sì che non ha senso.
(Da: YnetNews, 7.2.25)

Gila Gamliel

Scrive Gila Gamliel: Nel novembre 2023, un mese dopo che i terroristi palestinesi da Gaza avevano devastato il sud di Israele uccidendo, ferendone, violentando, mutilando e sequestrando come ostaggi migliaia di israeliani, presentai in un articolo una visione ardita su come garantire che un simile massacro non si sarebbe mai più verificato.

Nei giorni successivi all’attacco, con il mio team al Ministero dell’intelligence ho esaminato tutte le possibili opzioni per garantire che Gaza non fosse mai più una tale minaccia per Israele.

Prendemmo nota del fatto che il disimpegno (ritiro di tutti i civili e militari israeliani ndr), l’arricchimento (afflusso di fondi internazionali ndr), la gestione del conflitto (reazioni limitate di Israele ai ricorrenti lanci di razzi di Hamas ndr) e la costruzione di sofisticate barriere di confine nella speranza di tenere i mostri di Hamas fuori da Israele, tutte queste misure erano tragicamente fallite.

Di conseguenza il mio suggerimento era quello di “promuovere il reinsediamento volontario dei palestinesi di Gaza, per ragioni umanitarie, al di fuori della striscia”. …

Sulle prime, ovviamente, questa idea venne accolta con incredulità e assoluta mancanza di immaginazione da parte di molti, in Israele e nel mondo, compresi coloro che ricoprivano posizioni decisionali. … Ma come scrisse una volta il famoso autore inglese Arthur C. Clarke, nel dibattito pubblico “le nuove idee attraversano tre fasi: 1) non si può fare; 2) probabilmente si può fare, ma non vale la pena farlo; 3) sapevo fin dall’inizio che era una buona idea!”.

Nella sua conferenza stampa, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto che i palestinesi “non hanno alternative” se non quella di lasciare Gaza. Ha detto: “Se potessimo trovare il pezzo di terra giusto, o numerosi pezzi di terra, e costruire per loro dei luoghi davvero belli, con un sacco di soldi nella zona, penso che sarebbe molto meglio che tornare a Gaza”.

Questa visione di Trump è tutt’altro che perfetta e presenta sfide e limiti. Ma sono felice di sapere che il leader del mondo libero ha abbracciato la nostra iniziativa e l’ha sostenuta pubblicamente.

Come si usa dire, il meglio è nemico del bene. Sebbene questo piano non sia perfetto, è l’unico che può raggiungere i nostri obiettivi: riportare a casa tutti gli ostaggi, porre fine al controllo militare e governativo di Hamas e altri gruppi terroristici su Gaza, assicurarsi che un 7 ottobre non si possa più ripetere.

Ma non possiamo permettere che sia l’Autorità Palestinese a prendere il controllo di Gaza perché abbiamo già visto la sua totale inefficacia, quando Hamas ha buttato gli uomini dell’Autorità Palestinese fuori da Gaza, e alcuni giù dai palazzi.

E poi, il comportamento stesso dell’Autorità Palestinese che loda il massacro del 7 ottobre, paga stipendi ai terroristi coinvolti e continua a fomentare odio invocando la fine dello stato ebraico, dovrebbe essere sufficiente per capire che essa è parte del problema, non della soluzione.

Non possiamo affrontare continuamente lo stesso problema con le stesse formule, e aspettarci risultati diversi. Abbiamo testato tutte le possibili alternative e ognuna ci ha portato in un vicolo cieco e allo stesso identico problema. Quanto altro sangue deve essere versato prima di capire finalmente che non sono quelle le soluzioni al nostro conflitto con Gaza?

Oltretutto, è sempre più chiaro che molti abitanti di Gaza vorrebbero andarsene, soprattutto le fasce più giovani della popolazione.

Gli abitanti di Gaza rimangono l’unica popolazione sulla Terra a cui la comunità internazionale proibisce completamente di lasciare una zona di guerra e cercare rifugio altrove. Questa anomalia, unica e apparentemente insensata, dimostra perfettamente che c’è, e c’è stato, un motivo politico in questo rifiuto. E dimostra la collusione di molte nazioni, istituzioni multilaterali globali e ong internazionali nel perpetuare la sofferenza dei comuni abitanti di Gaza che pretendono di aiutare.

Ciò che è accettabile in ogni altro conflitto della storia moderna per qualche motivo pare che sia inaccettabile per Gaza. Invece, dovremmo applicare gli stessi criteri che valgono in altri conflitti.

Qui si offre un’opportunità a coloro che sostengono di avere a cuore il benessere dei palestinesi per dimostrare che le loro non sono solo parole vuote.

La comunità internazionale potrebbe contribuire ai costi del reinsediamento, aiutando la gente di Gaza che lo desidera a costruirsi una nuova vita nei nuovi paesi di accoglienza.
(Da: Jerusalem Post, 7.2.25)

Hamas vede con grande preoccupazione l’emigrazione di giovani dalla striscia di Gaza, poiché questo segmento della popolazione costituisce il nucleo della forza del gruppo terroristico.

E’ quanto rivela un documento trovato dalle Forze di Difesa israeliane e reso pubblico giovedì dal Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center (MAITIC).

Secondo dati non ufficiali, da quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, circa 250.000 giovani hanno lasciato la striscia, principalmente a causa delle condizioni economiche.

Un sondaggio condotto nel giungo 2024 dal Palestinian Center for Policy and Survey Research ha riscontrato che almeno il 44% dei giovani di Gaza tra i 18 e 29 anni ha seriamente preso in considerazione l’idea di emigrare.

Il documento pubblicato dal MAITIC, intitolato “Giovani che inseguono un’illusione”, è stato scritto dalla Brigata Khan Yunis dell’ala militare di Hamas e descrive l’emigrazione come una seria minaccia al potere di Hamas.

Secondo gli esperti del MAITIC, “anche se il piano di Trump non si concretizzasse, la semplice apertura del valico di Rafah e di altri valichi di frontiera potrebbe innescare un’ondata significativa di emigrazione dalla striscia di Gaza”, come già accaduto in passato. Un simile scenario, affermano, porrebbe una sfida importante a Hamas, che farebbe fatica a impedire ai giovani di andarsene.

Il fenomeno indebolirebbe la presa politica e militare del gruppo terrorista sulla popolazione di Gaza.

Il documento mostra come Hamas cerchi di contrastare questa tendenza mediante la retorica religiosa e nazionalista, descrivendo l’emigrazione come un tradimento dei valori islamici e della lotta palestinese.

Hamas definisce l’emigrazione una grave minaccia su tre livelli – religioso, morale e sociale – e mette in guardia i giovani contro “l’illusione di una vita facile” nei paesi stranieri. E pone particolare enfasi sui pericoli dell’emigrazione per coloro che sono coinvolti in attività jihadiste, descritti come un “tesoro prezioso” che potrebbe cadere nelle mani di agenzie di intelligence straniere.

Il messaggio centrale del documento di Hamas è che l’emigrazione, anche se porta prosperità economica, costituisce un tradimento della lotta nazionale e un grave peccato religioso, con conseguenze che si faranno sentire “in questo mondo e nell’altro”.
(Da: Jerusalem Post, 7.2.25)



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