/ di Guido Michelone //
Scrivo quest’articolo in prima persona, ancora esterrefatto per l’improvvisa scomparsa di Giancarlo Zedde musicista, editore, ma soprattutto amico: una persona schiva, taciturna,m ma estremamente colta che, soprattutto nelle vesti di amante dei libri ha sempre saputo cogliere al volo le idee giuste e, nonostante la sua militanza, quale cantante nella musica colta (polifonica per la precisione) non si è mai tirato indietro quando gli sono state proposte opere saggistiche su ben altri generi musicali. La casa editrice, che porta il suo nome, Giancarlo Zedde esordisce nel 1997 con la Collana «Musiche inedite e rare del Novecento», un progetto della Biblioteca del Conservatorio di Torino, coordinato da Andrea Lanza con la collaborazione del «Centro Studi Musicali C. Mosso» di Torino. Negli anni successivi Giancarlo arricchisce il catalogo con altri libri molto da musicisti e studiosi in quanto particolarmente attenti alla trascrizione delle fonti, alla cura dei soggetti e al rigore scientifico nel metodo e nell’impostazione. Fiore all’occhiello di questa produzione restano i trattati sul canto lirico e moderno. Poi Zedde da un lato apre pure anche al campo della narrativa e della poesia, settori nel quale ottiene via via ampio consenso di critica e di pubblico; dall’altro intraprende la produzione discografica di musica d’autore e della tradizione popolare, distribuendo altresì i Cd delle piccole indies etichette e lavorando addirittura nel settore dell’accessorio per musica, fino a produrre, infatti, una linea professionale di carta per musica apprezzata sia in Italia sia all’estero. A questo punto è utile comporre una breve cronistoria dei libri sul jazz, sulla black music, su quanto può anche indirettamente interessare il sound afroamericano, che Giancarlo pubblica nell’arco di tempo di diciassette anni ovvero tra il 2004 e il 2021: sono in tutto nove volume (circa uno ogni due anni) di svariata grandezza e alterno valore, ma accomunabili per l’originalità della proposta quasi a sfidare il mainstream cultura di taluna editoria snob e popolare.
Giancarlo dunque nel jazz esordisce con Fa sol la si… Perché? (2004) di Giampiero Boneschi, noto jazzman (1927-2019) che professionalmente si divide in mille attività: direttore d’orchestra, compositore, arrangiatore, produttore e discografico. In questa sorta di autobiografia musicale, l’autore, in tono scanzonato, racconta anzitutto gli esordi con il trio musicale Gambarelli-Mojoli-Boneschi, che alla fine della seconda guerra mondiale, dagli studi Eiar di Milano, propone musica quasi tutti i giorni, mentre al contempo come intrattenitore pianista allieta i soldati statunitensi in procinto di rimpatriare presso l’American Red Cross di Milano. Nei successivi anni Cinquanta Boneschi forma diversi gruppi, fra i quali un altro trio stavolta con il batterista Gil Cuppini e il sax tenore Eraldo Volontè, entrambi destinati a divenire protagonisti del jazz moderno europeo. Seguendo in parallelo l’evolversi dell’industria di 78, 45, 33 giri, italiana, Giampiero collabora e incide per diverse case discografiche, fra cui La voce del padrone, Odeon, Philips, Karim, Durium, Cam, Ricordi, avendo poi un contratto in esclusiva con Columbia in qualità di solista di pianoforte, mentre al contempo intensifica pure la professione di arrangiatore, orchestratore, direttore di ensembles grandi e piccoli partecipando addirittura ad alcune edizioni del Festival di Sanremo in qualità di autore. Nel libro vengono altresì ricordate, talvolta di sfuggita, la direzione del Festival delle rose a Roma, la rappresentanza per l’Italia nel 1960 al festival di Rio de Janeiro, la scrittura e l’esecuzione delle sigle di programmi televisivi epocali fra cui Lascia o raddoppia? e Festival di Sanremo 1973 per la RAI e Scherzi a parte per Canale. Boneschi cura inoltre la parte musicale peri brani per quasiu tutti i cantautori della scuola genovese degli anni Sessanta: Luigi Tenco, Gino Paoli, Umberto Bindi, Fabrizio De André. Direttore artistico della Dischi Ricordi per diverso tempo, oltre fare il consulente decisionale nell’assunzione degli artisti.
A Fa sol la si… Perché?segue, dopo un lustro, il mio Breve storia della musica jazz (2009) dove propongono per la prima volta in Italia al teoria del jazz quale musica moderna fin dalle origini, distinguendo per quanto riguarda il secondo dopoguerra la neomodernità e il postmodern, nella speranza di accendere il dibattito tra i ‘soloni’ della cultura jazzistica: inutile aggiungere com’è andata a finire. Con Giancarlo discutemmo a lungo su cosa mettere in quarta di copertina; anziché il solito riassuntivo, optammo per sei frasi emblematiche di altrettanto famosi jazzisti di svariate epoche, citate in quest’ordine: “Il jazz è quel genere musicale che può assorbire un sacco di cose ed essere ancora jazz”! (Sonny Rollins). “Il jazz è l’unica musica in cui la stessa nota può essere suonata in ogni serata, ma sempre in modo diverso£ (Ornette Coleman). “Il jazz mi attira perché vi trovo la perfezione della forma e la precisione strumentale che ammiro nella musica classica e che manca nella musica popolare in genere” (Django Reinhardt). “La cosa importante nel jazz è come mantenerne l’integrità e fornire stimoli superiori ai giovani, senza imitare le mode” (Wynton Marsalis). “C’è modo e modo, certo, di suonarlo, ma sarà sempre il blues (Count Basie). Cos’è il jazz? Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai” (Louis Armstrong).
Sempre nel 2009 esce Le parole di Francesco Guccini. Romanzi poesie storie e ballate nelle canzoni di un poeta cantautore(2009) di Gemma Nocera, la quale attua una ricerca sulle fonti che hanno ispirato quei versi che rimarranno nella storia della musica italiana e nella Storia del nostro Paese: decine di testi che parlano di noi e dell’Uomo, degli avvenimenti di tutto un secolo, di temi universali sempre attuali. Per Gemma Guccini – ispirandosi anche al blues – scrive e canta una poesia che nel corso di più generazioni, ha colmato le nostre solitudini, placato per un momento le nostre ansie e dato respiro ai nostri desideri Tre anni dopo Zedde edita Sintesi digitale del suono. Laboratorio pratico di Csound(2012) di Giorgio Zucco che introduce via via alla computer music, le novità del linguaggio Csound5, il tempo reale, inviluppi, tremolo, vibrato, spazializzazione, processi generativi, controllo midi, OSC, sintesi additiva, sottrattiva, modulazione di frequenza, sintesi granulare, modelli fisici, sintesi scanned, i processori di segnale, costruzione di interfacce grafiche, integrazione in Max/Msp e Ableton Live, sviluppo plugin Vst e molto altro. Ci sarà pure un seguito ideale con Suono, elettronica e mixed media. Tecniche di laboratorio didattico interdisciplinare (2017) di Alessandro Merlo e Domenico Sciajno con un volume inteso da supporto didattico all’elettronica applicata, per chi intende ampliare le proprie conoscenze storiche, estetiche, tecnologiche e in ambito laboratoriale. L’impiego dei sensori, lo studio delle potenzialità degli strumenti costruiti dalla “liuteria” del compositore elettroacustico sono presentati in modo chiaro e dettagliato.
Nello stesso anno Giancarlo torna al sound afroamericano proponendo Prince. A volte nevica in aprile (2017) di Giorgio Rudy Panizzi che segue tutta la carriera del musicista funk, parlando di sé e degli episodi che lo legano al genio di Minneapolis, compiendo in realtà una bella retrospettiva sul ragazzo nero che avendo ricoperto tutti i possibili ruoli musicali (chitarrista, compositore, jazzman, arrangiatore, polistrumentista, vocalist, produttore, ballerino) dagli anni Ottanta restituisce ulteriore dignità alla black music. E l’ammirazione per l’originalità di un musicista che influenza l’immaginario pop di un’epoca è riassumibile nelle parole dello stesso Panizzi: “Conservo ancora quel plettro a fianco della mia Cloud Guitar, con l’amore e l’attenzione che si dedicano soltanto alle cose di grande valore”. Ma il vertice dei lkibvri sul jazz per Zedde viene toccato l’anno dopo con Tullio Mobiglia. Un pioniere del Sassofono Jazz in Europa (2018) di Claudio Bianzino, il quale rammenta: “Ricordo che, mentre eravamo dietro le quinte del teatro, Gianni Basso diede un occhiata al mio strumento e, per ingannare l’attesa, disse: ‘Anche il tuo strumento ne ha di anni, eh?’. ‘Eh sì…’ risposi timidamente mostrandogli la campana del sassofono. Ricordo molto bene come gli si illuminarono gli occhi quando vide l’incisione: ‘Tullio Mobiglia?! Questo era il sassofono di Mobiglia?’. ‘Maestro, si ricorda di Mobiglia?’ gli chiesi. ‘Me lo ricordo eccome! Da ragazzo andavo sempre a sentirlo quando veniva a Torino! Mobiglia era senza dubbio il numero uno!’. Bianzino – figlio d’arte: il padre Giuse fu tra i propugnatori del dixieland revival a Vercelli e Pavia – ripercorre l’avventura musicale del grande dimenticato Mobiglia da quando, nel 1925, a quindici anni intraprende lo studio del violino e, ascoltando l’orchestra di Barzizza che suona tutti pezzi del repertorio di Paul Whiteman, scopre la passione per il jazz. Affascinato in particolare dai sassofoni compra il suo primo contralto. Poi i viaggi a New York dove ha finalmente la possibilità di ascoltare i migliori jazzisti come il violinista Joe Venuti e il sassofonista Coleman Hawkinsi che ispira il suo tratto stilistico. La carriera di Mobiglia si svolge essenzialmente in Europa fra gli anni Trenta e Quaranta. È il suo periodo d’oro in cui, vero pioniere del sassofono e della musica afroamericana, con le sue memorabili orchestre segna la strada del jazz europeo. Purtroppo all’epoca non esistono i concerti jazz, tantomeno la critica jazzistica, quindi per Claudio è difficile ottenere serie valutazioni. Ma Bianzino, attraverso testimonianze, trascrizioni di brani e improvvisazioni, immagini rare e un’attenta analisi storica del contesto socio-culturale di quel periodo, restituisce a Tullio Mobiglia il giusto riconoscimento della sua statura musicale.
Non passano molti mesi che arriva in libreria Due notti magiche a Newport. Storia e leggende di tre grandi del Jazz(2019) diGianfranco Nissola, il quale nel libro racconta: “(…) considerato quel che è già stato scritto, si potrebbe parlare di fenomenologia di un festival comprendendo sotto tale denominazione tutto un insieme di persone che agiscono e danno vita a fatti e avvenimenti che finiscono per assumere un particolare significato; specialmente se tutto questo perdura negli anni. Esiste nella realtà un evento che può fornire una serie di risposte a innumerevoli domande: è il Newport Jazz Festival. Una significazione che è quasi una reale enciclopedia del jazz, sempre in divenire: il migliore esempio, forse, della vitalità di questo genere musicale: botta e risposta, un dialogo che esiste da anni, sempre diverso, attuale nella sua sempre variabile espressione. Un vivere per sopravvivere, basilare per la comprensione globale di questa musica che si esprime attraverso riferimenti, citazioni, stravolgimenti anche poetici – nel senso di fare – dei quali si deve conoscere la codifica per apprezzare l’essenza artistica. In questo panorama potremmo inserire – per meglio comprendere la forza divulgativa – i due non-incontri Ellington-Davis del 1955 e 1956: due serate mitiche e due date ormai storiche. Di certo una diversa conclusione dell’appuntamento Duke Ellington e Miles Davis nel 1948 avrebbe modificato il futuro di due (o di milioni di) esistenze. Duke e Miles entrarono forse in crisi per questo? Enigma insolubile. Le considerazioni sulla vita di entrambi, sulla musica che composero e suonarono separatamente, indicano che sia l’invito che il rifiuto, di per sé, non ebbe conseguenze sul rispettivo livello artistico raggiunto”. Ovviamente il terzo del titolo è George Wein, l’impresario nonché direttore di Newport.
E vorrei terminare ancora con un mio recente libro, il secondo per lui (un terzo appena progettato, purtroppo, non si farà mai, almeno con Giancarlo): Musica ribelle. Gli anni ’70 Pop rock jazz folk. 100 protagonisti tra album, interviste, aneddoti, biografie (2021). Parto da una canzonetta: “Ed è la musica, la musica ribelle, che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle, che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare, di mollare le menate, e di metterti a lottare”. Questo il refrain, divenuto subito celeberrimo, usatissimo come sigla, jingle o stacchetto in tante radio libere, addirittura un inno generazionale: il brano è di Eugenio Finardi, allora ventiseienne, inciso nel 1976 per la Cramps Records. E Musica ribelle è il titolo di questo mio libro, a cui tengo molto (nonostante le esigue recensioni) perché i due termini – ‘musica’ e ‘ribelle’ – riassumono assai bene l’obiettiva novità in fatto di suoni giovanili che si dipanano lungo gli anni Settanta (1970/1980), attraverso stili, generi, filoni, movimenti, spesso fra loro distanti sul piano delle idee, delle qualità, delle problematiche, delle forme, ma tenuti ‘insieme’ dagli ascoltatori per un comune obiettivo: vivere, mediante il linguaggio delle sette note, il sogno di una ribellione assoluta, che andasse persino al di là della politica, della società, della persona, dell’arte. E in effetti, mai come negli anni ’70 (o Seventies all’americana) del XX secolo, viene offerto un panorama così vario, colorato, versatile, cangiante di situazioni musicali ribelli (e ribellistiche) anche dietro e davanti alle apparenze, rispetto a 150 anni di attività di scuole, estetiche, tendenze rock, pop, folk, jazz, nel segno dello spartito, del disco, del concerto, della registrazione sonora.
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