Le banche, le assicurazioni, la gestione del risparmio. L’autunno ha portato con sé un terremoto nel panorama finanziario italiano, cristallizzato da vent’anni. Le operazioni straordinarie lanciate da novembre a oggi sono destinate – comunque vadano a finire, e anche se non dovesse succedere nulla – a incidere non solo sugli assetti di potere, ma anche sull’intero apparato di società, servizi e prodotti su cui imprese e famiglie potranno contare, sulla sua fisionomia e sulla sua tenuta in caso di choc futuri. Un terremoto, non una tempesta. Che pesa più dei 50 miliardi valore di Borsa delle società coinvolte e rende l’intera vicenda non solo una materia per addetti ai lavori, investitori grandi o piccoli, appassionati del tema: vale dunque la pena capire gli intrecci di ciò che assomiglia a un risiko ma non è un gioco, e dei possibili epiloghi di partite molto “italiane” ma che si decideranno in larga parte all’estero, in una specie di verifica sul campo della capacità del sistema-Paese e dei diversi attori coinvolti di portare dalla propria parte investitori e regolatori.
Sei tavoli, molti giocatori in comune
Le grandi partite aperte, che vedono molti giocatori in comune, sono sei: cinque “assalti”, cioè tentativi di aggregazione più o meno ostili in cui un attore si è mosso di propria iniziativa, e un progetto di unione tra due società di gestione del risparmio. Tra i primi, il più rilevante per dimensioni è anche quello che al momento pare il più lontano dal traguardo: il tentativo di UniCredit di aggregarsi con la tedesca Commerzbank, di cui controlla – tra azioni e strumenti derivati – quasi il 28% del capitale, più del doppio dello Stato tedesco che l’ha risanata negli anni e che oggi pare tutt’altro che propenso a passarla al gruppo di matrice italiana, dal 2005 già proprietario di un altro grande istituto con sede a Monaco di Baviera, Hvb.
Intanto UniCredit è impegnata su un altro fronte: il 25 novembre ha lanciato la scalata su BancoBpm, attraverso un’offerta che ha fatto storcere un po’ il naso al governo. Perché intorno alla ex popolare con un azionista ingombrante come i francesi del Crédit Agricole, tra Palazzo Chigi e il Tesoro nei mesi precedenti si era cullato il sogno di costruire il terzo polo bancario italiano (dopo Intesa e la stessa UniCredit) insieme a Mps, dove appena dieci giorni prima Bpm era entrata con una quota del 5% in occasione dell’ultima cessione di quote pubbliche, accanto alle holding finanziarie delle famiglie Del Vecchio e Caltagirone, con il 3,5% a testa. Un posizionamento, dunque, in vista di ulteriori passi futuri. Ma nel giro di poche settimane il copione è cambiato e ha prevalso un’altra logica. Così l’inedita (e non formalizzata) cordata pubblico-privata composta da Del Vecchio, Caltagirone e il Mef, Mps si è trovata protagonista dell’ultimo assalto in ordine di tempo: quello meno atteso di tutti, che il 24 gennaio ha visto l’istituto senese, fino a pochi anni fa non solo il più antico al mondo ma anche tra i più sofferenti, gettarsi alla conquista di Mediobanca, banca d’affari (e ormai tante altre cose) al centro dell’ecosistema finanziario dal Dopoguerra e ritenuta fino a ieri bersaglio fuori portata per tutti, se non altro per questioni di lesa maestà.
Ma cosa ha spinto il Tesoro e due grandi famiglie del capitalismo italiano ad architettare un’operazione così ardita, che vede una banca appena risanata e che oggi vale circa 8 miliardi proporsi ai soci di un salotto buono che ne vale 13? «Un’opportunità strategica incredibile», ha detto l’amministratore delegato di Mps Luigi Lovaglio, banchiere stimato per una carriera di risanamenti e rilanci. Ma a spiegare l’operazione non bastano gli “economics”, cioè i ritorni promessi. In molti, praticamente tutti, vedono anche l’incrocio con un’altra partita in corso, che si gioca non sul credito ma al confine tra assicurazioni e risparmio, e in particolare tra Generali e Natixis. La compagnia assicurativa sta trattando con gli azionisti del gruppo francese la costituzione di una società unica di gestione del risparmio, in cui i due soggetti dovrebbero conferire in tutto 1.900 miliardi di investimenti finanziari dei propri clienti; in ballo c’è la creazione del nono soggetto mondiale di un’industria, quella del risparmio gestito, oggi cannibalizzata dai colossi americani. Ma l’operazione studiata dal vertice delle Generali, ispirata dal socio di maggioranza relativa (al 13,1%) Mediobanca – che deve ai dividendi del Leone quasi la metà degli utili che produce – non trova il favore del secondo e terzo azionista della compagnia, che sono Del Vecchio (9,93%) e Caltagirone (6,92%). Di qui la lettura incrociata delle due partite, in cui è difficile non vedere una sorta di “ripicca” dei due grandi soci contro Mediobanca. Infine ma non ultimi, il dossier più fresco, quello che giovedì sera ha visto Bper aprire un’offerta sulla Popolare di Sondrio (di cui ha già il 19,7% attraverso la sua controllante Unipol) e quello più piccolo, che il 6 novembre ha visto Bpm lanciare un’offerta su Anima, la più grande società italiana di gestione del risparmio.
Cause e possibili effetti
Per una serie di ragioni macroeconomiche, per banche, assicurazioni e risparmio è un momento d’oro: utili (e dividendi) a livelli record grazie ai tassi d’interesse innalzati negli ultimi anni per rispondere all’inflazione, crediti deteriorati ai minimi per le pulizie dell’ultimo decennio e per la ripresa dell’economia dopo il Covid. Tutto questo ha reso il credito il perfetto campo di gioco per una serie di riassetti e regolamenti di conti che vanno ben oltre ai meri aspetti finanziari. Ma come finirà? Le partite sono aperte, dunque tra un anno – non prima – potremmo ritrovarci con un mercato molto più concentrato (meno banche, più grandi e potenzialmente robuste ma con la necessità di razionalizzare le proprie strutture) oppure diversamente composto (e qui gli scenari possibili sono parecchi) o identico a oggi ma comunque provato da un anno di tensioni tra soci, manager e regolatori.
Pro e contro, in sostanza. Lo riassume ad Avvenire Giovanni Cuniberti, consulente indipendente fondatore dell’omonima società d’investimento e docente alla Scuola di Management ed Economia dell’Università di Torino: «Le aggregazioni sono sicuramente un’opportunità per gli investitori in quanto aumentano la solidità bancaria, l’efficienza operativa e fiscale generando valore per gli azionisti nel lungo periodo», sottolinea. C’è, però, anche un’altra faccia della medaglia: «Dal punto di vista pratico, le aggregazioni hanno portato spesso disagi ai clienti che si trovano con nuovi interlocutori bancari, sistemi informativi diversi, password e carte di credito da rinnovare. Soprattutto le generazioni più mature non saranno contente ma questo è un male necessario per essere più solidi a livello europeo».
Tra politica e potere
Difficile spingersi oltre sul piano finanziario e le conseguenze pratiche di una razionalizzazione dell’ecosistema che gli esperti aspettavano da anni vista la frammentazione. «C’è una grande spinta al rafforzamento delle banche che sono tutte in competizione fra di loro. E poi viva il mercato», come ha chiosato il presidente dell’Abi Antonio Patuelli. Ma vale la pena esplorare l’altro lato di questo fermento, che è tutto politico. E non solo perché sul dossier si è consumata l’ennesima frattura tra maggioranza di governo e opposizione, con la premier Meloni che ha rimarcato l’orgoglio «per una banca come Mps, che fino a ieri ha avuto problemi, oggi è completamente risanata e avvia operazioni ambiziose e il Pd che ha invitato il governo «a rispondere prima ai cittadini che al mercato», con l’eurodeputata Irene Tinagli a ricordare che «c’è un dovere di trasparenza». A centrare una parte del punto è stato il sindaco di Milano Giuseppe Sala, secondo il quale l’offensiva di Siena su Mediobanca «può essere raffigurata come un Roma contro Milano» e relativi simboli, dunque una certa versione di capitalismo familiare contro una certa finanza abituata ormai a parlare soprattutto inglese. Pochi giorni dopo, il ministro Giancarlo Giorgetti ha detto il contrario e riportato l’intera vicenda a una mera «operazione di mercato», ma l’impressione è che dietro al gioco che non è un gioco ci siano anche ragioni di stile e “di pelle”, questioni personali di manager e imprenditori che non si sono mai presi fino in fondo. Con obiettivi che vanno ben oltre, e non rispondono solo a logiche di mercato: «L’offerta nei confronti di Mediobanca rappresenta un chiaro messaggio di potere verso Generali», dice ancora Cuniberti. «Prendere il controllo di Mediobanca porterebbe a un’integrazione tra una banca commerciale tradizionale e una banca d’investimento con attività nell’asset management e nel credito al consumo, ma soprattutto avrebbe inevitabili ricadute sul controllo del big delle assicurazioni. Mediobanca è infatti il principale azionista di Generali, alla vigilia dell’assemblea che in primavera dovrà rinnovare il cda, in una riedizione dello scontro tra Mediobanca e i due suoi principali azionisti».
Chi deciderà vincitori e vinti
È qui che la questione si allarga. E dalle simpatie personali, dalle logiche industriali o speculative riconducibili al mercato, si arriva alla vera posta in palio: ridefinire l’assetto dell’ecosistema economico-finanziario, in cui si vedrà chi conta di più e chi conta di meno, quello con cui dovranno confrontarsi i clienti ma anche la politica. Ecco perché la politica è sul pezzo, e nessuno può permettersi di restare passivo. La mossa di UniCredit, che negli ultimi giorni ha deciso di posizionarsi anche sulla partita di Generali comprando un 4%, lo conferma. E ora c’è chi guarda con sempre più attenzione gli altri big per ora spettatori: Intesa Sanpaolo, negli ultimi anni leader indiscusso del mercato bancario e del risparmio ora destinato (forse) a cambiare faccia. E’ infatti alla vigilia di un rinnovo dei vertici (anche se il ceo Carlo Messina non è in discussione) e ha appena annunciato quasi 9 miliardi ai soci nel 2025, quindi può permettersi di restare – per ora – alla finestra. Ma c’è chi monitora altri big esteri, a partire dal colosso francese Bnp che controlla Bnl.
D’altronde il risiko, per quanto domestico, non si deciderà solo in Italia. Anzi. In comune tutte le diverse partite hanno, diversi interlocutori stranieri ai rispettivi tavoli da gioco. Attori pesanti, a volte pesantissimi. In buona parte si tratta dei fondi di investimento – per lo più americani, raramente italiani – a cui fa capo buona parte del capitale: sono loro che andranno convinti della “bontà” delle diverse offerte sul tavolo, che per andare in porto dovranno conquistare l’assenso di almeno il 50% più una delle azioni. Ma ci sono anche i regolatori, in primis la Banca centrale europea accanto alla Banca d’Italia: in quanto autorità di vigilanza sulle grandi banche dell’area euro, non solo deve autorizzare le acquisizioni di banche, ma può fissare condizioni più o meno stringenti e quindi decisive per il buon esito. Un risiko domestico, dunque, ma che si deciderà in larga parte fuori. E che misurerà la capacità di convincere il mercato o i regolatori. Un grande esame per tutti, in pratica: banche, azionisti, sistema-Italia nelle sue varie espressioni.
Il primo verdetto in calendario
Se queste sono state le mosse fin qui compiute, per capire che aria tira non ci sarà molto da aspettare. I primi verdetti, infatti, arriveranno nei prossimi giorni: quando le offerte dovranno essere “argomentate” con lunghi documenti (i cosiddetti “prospetti”) richiesti dal regolatore ma anche utili a mettere in fila ragioni e obiettivi delle singole operazioni. Materiale, questo, fondamentale per le decisioni dei fondi e dei loro consulenti (i proxy advisor, in gergo). E poi le assemblee: la primavera è la stagione delle grandi riunioni dei soci, non più partecipate come fino a qualche anno fa ma ancora valide a tastare il polso e l’umore degli azionisti. Un occhio di riguardo per l’assemblea di Generali, l’8 maggio 2025: all’ordine del giorno non solo il bilancio 2024 (i primi nove mesi si sono chiusi con 3 miliardi di utile), ma soprattutto l’elezione del nuovo consiglio. Con ogni probabilità da una parte ci sarà la lista per la conferma dell’attuale vertice, con il presidente Andrea Sironi e l’amministratore delegato Philippe Donnet, architetto dell’operazione con Natixis; dall’altra, una lista alternativa targata Del Vecchio, Caltagirone e – forse – altri soci privati, che l’operazione con i francesi non la vogliono. Sarà questo il primo verdetto, con inevitabile effetto cascata sulle altre partite.
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