La guerra ai poveri di Trump. E se l’Europa guardasse al Sud globale?

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Nel turbinio di iniziative dell’amministrazione americana non è stato notato il ritiro degli Usa dall’accordo Beps per la cooperazione sulla tassazione delle multinazionali. Le politiche pro-ricchi del presidente Usa, giustificate dalla fallace teoria dello “sgocciolamento”, rischiano di aggravare la disuguaglianza. L’Ue dovrebbe riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti e cercare alleanze con i paesi del Sud globale per un coordinamento in tema di tassazione che prescinda dagli Stati Uniti, ormai da considerare paese ostile.

I primi giorni dell’amministrazione Trump sono stati una specie di ottovolante: dai propositi di invasione di paesi alleati alla proposta di trasformare Gaza in un resort, passando per i dazi e per lo smantellamento dell’amministrazione pubblica statunitense. In tutto questo è fatalmente passato inosservato il ritiro degli Stati Uniti dagli accordi Beps (Base Erosion and Profit Shifting). Tuttavia, è una decisione gravida di conseguenze, che segna un ulteriore passo indietro nella lotta globale alla disuguaglianza e all’elusione fiscale delle multinazionali

Il Beps è un accordo internazionale raggiunto nel 2021 in sede Ocse per contrastare l’elusione fiscale, incentrato su due pilastri. Il primo stabilisce un’imposizione minima del 15 per cento sugli utili delle imprese, riducendo gli incentivi a spostare i profitti verso paradisi fiscali.

Assistenza per i sovraindebitati

Saldo e stralcio

 

Il secondo introduce degli algoritmi per distribuire tra i paesi i profitti, e quindi la base imponibile in base all’attività economica delle multinazionali (fatturato, occupati, capitale) e non alla loro residenza fiscale. L’obiettivo è fermare la corsa al ribasso delle imposte sulle società per attrarre le multinazionali (il cosiddetto dumping fiscale) ed evitare l’elusione delle multinazionali.

L’accordo Beps, pur avendo molti difetti, è un tentativo importante di coordinare le politiche fiscali internazionali contrastando l’elusione delle grandi multinazionali; inoltre, introduce l’importante principio che la concorrenza fiscale vada combattuta perché limita i margini di manovra degli stati, privandoli di risorse essenziali per servizi pubblici e politiche redistributive. Il ritiro degli Stati Uniti da questo accordo globale non solo ne indebolisce l’efficacia, ma chiarisce quali sono gli interessi che l’amministrazione Trump proteggerà nei prossimi anni.

Aiutare i ricchi fa bene solo ai ricchi

Questa non è una sorpresa. Già il primo mandato di Trump era stato caratterizzato da politiche regressive. La sua riforma fiscale del 2017, per esempio, aveva ridotto drasticamente l’aliquota dell’imposta sulle società dal 35 per cento al 21 per cento (e oggi il tycoon intende ridurla ulteriormente al 15 per cento). Alcuni provano ancora oggi a difendere le politiche a beneficio delle classi più abbienti e del capitale sostenendo che ridurre le tasse per i ricchi e le imprese stimoli gli investimenti, la crescita economica e, conseguentemente, il benessere di tutti. I benefici economici concessi ai più abbienti, insomma, “sgocciolerebbero” (dall’inglese trickle down) verso il basso, migliorando le condizioni di vita anche dei meno privilegiati. Questa teoria è stata invocata per giustificare molte riforme fiscali negli ultimi decenni, dai tagli delle tasse di Reagan negli anni Ottanta a quelli di Trump e Macron nel 2017.

Tuttavia, numerosi studi accademici hanno dimostrato che gli sgravi fiscali per i ricchi non producono i benefici economici promessi. Ad esempio, una ricerca recente di David Hope e Julian Limberg analizza casi di riforme fiscali in diciotto paesi dell’Ocse nell’arco di un cinquantennio, evidenziando come i tagli fiscali per i più ricchi aumentano la disuguaglianza di reddito ma non hanno un impatto significativo sulla crescita o sull’occupazione. Al contrario, altri studi mostrano come per sostenere la crescita e l’occupazione le riduzioni di imposta dovrebbero essere concentrate sui contribuenti a basso reddito, o ancora che i paesi con più disuguaglianza sono quelli che sono meno capaci di assorbire gli shock e hanno quindi fluttuazioni del Pil più pronunciate.

Servono soluzioni globali

Insomma, il trickle down non ha alcun sostegno empirico. Le politiche a favore dei più ricchi portano benefici solo a loro (che sorpresa!) e non “sgocciolano” verso i più poveri, aggravando le disparità sociali e ostacolando la crescita. Ne consegue che le politiche dei redditi svolgono un ruolo centrale tra le misure necessarie per rilanciare l’investimento e la crescita, per invertire finalmente la tendenza trentennale all’aumento della disuguaglianza. Ed è qui che iniziano i problemi.

Uno dei maggiori ostacoli alle politiche redistributive è la mobilità dei ricchi e del capitale: i grandi patrimoni e le multinazionali possono facilmente spostarsi in giurisdizioni con fiscalità più favorevoli, rendendo difficile per i singoli paesi attuare politiche fiscali progressive. È proprio questa mobilità che giustifica la diminuzione del peso del fisco sulle classi più agiate, la concorrenza fiscale, e porta acqua al mulino dei soliti noti per cui, anche se la disuguaglianza crescente nuoce alla crescita, non si può fare nulla per contrastarla.

È certamente vero che per un singolo paese, soprattutto un piccolo paese, i margini di manovra sono ristrettissimi, e che una soluzione duratura non può prescindere da uno sforzo globale. Per questo il ritiro degli Stati Uniti dagli accordi BEPS è una pessima notizia, indebolendo gli sforzi globali per affrontare un problema che, per sua natura, richiede una risposta coordinata.

Europa, cercare nuove alleanze

Ma, per usare una formula abusata, in politica gli spazi vuoti non esistono: il ritiro degli Stati Uniti dal Beps potrebbe essere un’occasione per l’Unione europea di rilanciare da protagonista la cooperazione internazionale in materia di tassazione. Dopotutto, l’Europa non è un piccolo paese, e se agisce unita può fare pesare le dimensioni del proprio mercato in un’arena internazionale in cui i rapporti di forza sono diventati (e non dal 20 gennaio) la nuova norma.

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Il difetto principale dell’accordo Beps è la distribuzione disuguale dei benefici, che andrebbero principalmente a vantaggio dei paesi avanzati. L’Ue potrebbe dirsi disponibile a rivedere in tempi brevi l’accordo, rendendo l’algoritmo di ripartizione dei profitti più vantaggioso per i paesi del Sud globale. Questo darebbe anche il segnale che il resto del mondo può organizzare spazi di cooperazione senza dipendere dai chiari di luna e dai cicli politici degli Stati Uniti, ormai a tutti gli effetti un paese ostile. Un’“alleanza dei volenterosi” con i paesi emergenti e con il Sud globale, che contrasti gli atteggiamenti dell’amministrazione Trump, potrebbe passare anche per un sostegno convinto alla “tassa Zucman” sulla ricchezza, portata avanti dalla presidenza brasiliana (e ora sudafricana) del G20.

Certo, se l’Europa finora è stata timida sui temi della cooperazione fiscale ci sono molte ragioni, tra cui principalmente la presenza al suo interno di paesi che sono sulle liste dei paradisi fiscali (Irlanda, Olanda, Lussemburgo) e che hanno molto da perdere dalla fine della concorrenza fiscale. Ma chissà, con la trasformazione del sistema delle regole globale in un Far West, anche per questi paesi perdere dello status di paradiso fiscale potrebbe alla fine rivelarsi ben meno problematico di una guerra di tutti contro tutti.

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