Il governo progetta di riconvertire i centri in Albania in Cpr in cui rinchiudere chi vive già in Italia in condizione di irregolarità
Tra proteste, morti, suicidi e rivolte, di anno in anno aumentano report che denunciano le condizioni disumane dei centri, spesso definiti ‘lager’. Forti condanne contro il sistema Cpr anche dal Comitato europeo contro la tortura
Attivisti e attiviste di fronte al Porto di Shengjin, in Albania. Foto di Arianna Baldi
Il governo Meloni non molla l’accordo con l’Albania. Nonostante gli ostacoli legali e logistici, il piano per esternalizzare le frontiere continua a evolversi. L’ultima mossa è cambiare la funzione dei centri di Shengjin e Gjader, frutto del protocollo Rama-Meloni, rendendoli la destinazione delle persone che vivono già in Italia, ma senza potersi regolarizzare. Quindi, a tutti gli effetti, dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), strutture detentive tristemente note per le condizioni degradanti e le violazioni dei diritti umani in Italia. La notizia arriva a ridosso di un momento cruciale: il 25 febbraio la Corte di Giustizia europea è chiamata ad esprimersi sulla legittimità del principio dei “paesi sicuri“, su cui si regge l’intesa tra Roma e Tirana. Ma il governo italiano sembra giocare d’anticipo, pronto a forzare la mano pur di non abbandonare il progetto. Significa esportare in Albania un modello già fallimentare, con costi altissimi per le persone detenute e per lo Stato.
Cosa sono i Cpr e perché se ne parla sempre più spesso
I Centri di permanenza per il rimpatrio sono strutture detentive dove vengono rinchiuse le persone migranti considerate irregolari e in attesa di espulsione. Si tratta di detenzioni amministrative, cioè senza reato. Il tempo massimo di permanenza nei centri si è allungato progressivamente nel corso del tempo: da 6 mesi si è arrivati ai 18 previsti dal Decreto Cutro.
Una cornice già problematica in cui si inserisce un altro tassello controverso. E cioè il fatto che i Cpr sono un affare lucroso per chi li gestisce. Negli ultimi anni, la privatizzazione ha dato in appalto queste strutture ad aziende che, come evidenziato dal dossier di Cild L’affare Cpr, riducono al minimo i servizi essenziali e spesso peccano di scarsa trasparenza.
“All’inizio, la gestione dei Cpr, che un tempo si chiamavano Cie, era tutta diversa” racconta a Nigrizia Oiza Q. Obasuyi, dottoranda in Sociologia presso l’Università di Bologna e collaboratrice, oltre a diverse testate, della Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (Cild), che ha prodotto diversi report sul tema Cpr. “All’inizio se ne occupavano lo Stato, la Croce Rossa… poi è iniziata la privatizzazione, che li ha messi in mano alle multinazionali. Così i privati lucrano e intanto lo stato si de-responsabilizza. Anche perché ovviamente, chi li vince gli appalti? Chi gioca al ribasso dei costi. Il che significa che vince chi offre i servizi più scadenti, o del tutto inesistenti”.
Insomma, i Cpr sono un non-luogo, senza servizi e senza diritti, in cui le persone trascorrono fino a un anno e mezzo sospese in un limbo.
“D’altra parte,” continua Obasuyi, “il problema della tutela dei diritti umani nei Cpr risale direttamente alla legislazione, che è poco chiara. Per chi vuole fare valere i propri diritti in merito, non può nemmeno appellarsi ad una legge specifica, perché non c’è. Ci si appella a un mero regolamento. Per questo, la persona in un Cpr è addirittura meno tutelata rispetto a chi è carcere.”
Morti di Cpr, morti di Stato
Perché di fatto, i diritti, nero su bianco, non ci sono. E le conseguenze sono a volte mortali. Proprio in queste settimane cade l’anniversario della morte di Ousmane Sylla, un giovane guineano di 22 anni morto suicida il 4 febbraio 2024 all’interno del Cpr di Ponte Galeria, a Roma.
Un caso non isolato. Un destino simile al suo era già toccato a Moussa Balde, anche lui guineano, 23 anni, morto suicida nel Cpr di Torino nel 2021. Balde era stato brutalmente aggredito da tre uomini a Ventimiglia, un pestaggio che aveva riportato sotto i riflettori il razzismo e la violenza che le persone subiscono lungo i confini. Invece di ricevere protezione, è stato trasferito in un Cpr, dove si è impiccato con un lenzuolo.
Nei Cpr italiani si registrano non solo suicidi, ma anche continui atti di autolesionismo e gravi violazioni dei diritti umani. Per molti trattenuti, la permanenza si trasforma in una prigionia senza prospettive, con scarse possibilità di tutela legale e condizioni di vita degradanti.
Le condizioni nei Cpr: tra violenza e mancanza di diritti
Sulle condizioni disumane nei Cpr fioccano ormai le documentazioni. Non mancano i report redatti dalle organizzazioni per i diritti umani e civili, come Buchi Neri e Chiusi in Gabbia di Cild o Trattenuti di ActionAid. Ma lo scorso dicembre, si è pronunciato anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt), che nell’aprile del 2024 ha condotto una visita nei Cpr italiani. Le accuse sono numerose e gravissime, su ogni fronte. Ambienti fatiscenti, privazione di cure mediche adeguate, abuso di psicofarmaci, violenza sistemica e una gestione privatizzata che spesso punta al risparmio sui servizi essenziali. Si legge nel comunicato che accompagna il report:
“Il Comitato critica la pratica della diffusa somministrazione ai cittadini stranieri di medicinali psicotropi diluiti in acqua senza prescrizione medica, come documentato nel CPR di Potenza.”
Non solo: viene menzionata anche la quasi totale assenza di attività offerte all’interno, lasciando i cittadini stranieri “di fatto ‘depositati’ nei CPR, in cui gli enti gestori investivano solo sforzi minimi per offrire alcune attività di natura ricreativa.”
Ma il nodo più critico riguarda la sicurezza e l’uso della forza come strumento repressivo, tanto da ritenere “l’elevato tasso di eventi critici e violenza registrato”, “una diretta conseguenza delle sproporzionate restrizioni di sicurezza, della mancanza di una valutazione del rischio individuale per i cittadini stranieri e del fatto che alle persone trattenute non veniva offerta alcuna attività per occupare il loro tempo.”
E già a dicembre, il comunicato concludeva che, visti i risultati dell’indagine, il Comitato metteva in discussione “l’applicazione di un modello di questo tipo da parte dell’Italia in un contesto extraterritoriale, quale l’Albania”.
Le proteste e la resistenza della società civile
Non sorprende allora l’elevato numero di rivolte che scoppiano ciclicamente negli otto (per ora) Cpr sparpagliati per l’Italia. Per citare quanto accaduto solo gli eventi più significativi degli ultimi mesi, lo scorso luglio c’è stata una rivolta nel centro di Ponte Galeria, dove 40 trattenuti avevano bruciato i materassi e reso inagibile la struttura. Due ore di tumulto che avevano fatto seguito alle urla di un uomo che aveva minacciato di volersi togliere la vita. Solo nelle ultime settimane, dopo che un uomo probabilmente in fuga è caduto dal tetto, sono scoppiate forti proteste nel Cpr di Gradisca, in Friuli. Una vicenda che ha portato all’arresto di cinque persone, mentre episodi simili continuano a verificarsi anche in altre strutture, in un contesto sempre più segnato da malcontento e repressione. E il nuovo Ddl sicurezza potrebbe essere la ciliegina sulla torta.
“Dietro al ddl sicurezza, c’è una forte logica razzista”, spiega Obasuyi. “Si inaspriscono le conseguenze per chi protesta, anche pacificamente. Si vuole punire chi si ribella in ogni forma, anche se si tratta di resistenza passiva, come non obbedire a un ordine, o fare lo sciopero della fame. È gravissimo!”
Per tutte queste ragioni, le reti anti-Cpr, tra le quali il Network against migrant detention, composto da attivisti e attiviste di diversi paesi d’Europa, chiedono la chiusura di queste strutture e un cambiamento radicale delle politiche migratorie.
“Il problema è strutturale”, sottolinea Obasuyi. “Possiamo discutere della cattiva ‘gestione delle migrazioni’, ma già questa espressione non mi piace, la trovo impregnata di razzismo. Le persone non sono pacchi postali, che vanno ‘gestiti’ e spostati da una parte all’altra. Né sono irregolari: al massimo sono ‘irregolarizzate’. Ma nel sistema attuale, la persona migrante diventa personificazione del reato stesso, secondo un processo definito ‘crimmigration’.
Fallimento conclamato
Anche perché, stando ai dati, l’intero sistema Cpr è mal funzionante anche per chi ne supporta la logica. Secondo ActionAid, nel 2023 solo il 10% delle persone rimpatriate provenivano dai Cpr. Mentre stando ai numeri della questura di Roma, elaborati dal Consiglio regionale del Lazio, le persone che hanno lasciato il Cpr di Ponte Galeria dal 20220 al 2023 lo hanno fatto per essere rimpatriate solo nel 25% dei casi. Nel 52% la ragione era la mancata convalida del trattenimento o, nel 12%, la decorrenza dei termini.
Questo porta a chiedersi allora cosa succede a una persona dopo che ha passato 18 mesi in un Cpr e probabilmente nel frattempo ha perso il lavoro e la casa, qualora ne avesse una. “Finisce per strada”, conclude Obasuyi. “Diventa ancora più marginalizzato di prima. E il ciclo ricomincia. È una forma di irregolarizzazione sociale indotta. Bisogna lavorare insieme per portare a quello che viene definito un ‘narrative change’. Ribaltare la prospettiva.”
Il governo però, va in direzione opposta nonostante l’esperienza dei Cpr in Italia parli chiaro sotto ogni punto di vista. Mentre le violazioni si accumulano e le proteste si moltiplicano, la società civile continua a denunciare l’ingiustizia di questi centri e a chiedere una svolta radicale nelle politiche migratorie. L’alternativa esiste: garantire percorsi legali e dignitosi, invece di rinchiudere le persone in una prigione senza colpa e senza futuro.
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