Uno Stato di diritto che rinnega la Corte penale internazionale è un paradosso inaccettabile

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In nome della ragion di stato viene messo in discussione il ruolo della Cpi. Ma se si vogliono contrastare le derive del disordine globale, i nuovi genocidi e i crimini contro l’umanità, non si può cedere al ricatto di rinnegare l’idea di una giustizia internazionale

Le argomentazioni rappresentate dalle autorità italiane sulla liberazione del torturatore libico Almasri non hanno convinto i giuristi formatisi sulle scuole di pensiero del diritto penale internazionale di Pietro Nuvolone, Giuliano Vassalli e Antonio Cassese.

Piuttosto controversa appare la posizione assunta dal ministero della Giustizia rispetto all’“obbligo di cooperazione” dovuto alla Corte penale internazionale, secondo le previsioni dello Statuto di Roma.

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Rivendicazioni discutibili

È discutibile infatti la rivendicazione di un sindacato di legittimità e di merito del ministero della Giustizia su una presunta “nullità” del provvedimento della Corte: questa può essere fatta valere dalle parti nell’ambito del procedimento, non certo da chi aveva l’obbligo di esecuzione, da cui poteva esonerarsi solo nei casi espressamente previsti dallo Statuto di Roma.

Le eccezioni sollevabili da uno Stato sono disciplinate dall’ articolo 97 dello Statuto: 1) informazioni insufficienti (ma il mandato risulta ampiamente documentato); 2) la persona non può essere localizzata o non è quella indicata nel mandato; 3) se l’esecuzione del provvedimento «violi un obbligo pattizio preesistente con un altro Stato». Anche se fossero emerse imprecisioni l’obbligo di cooperazione impone l’immediata consultazione con l’Aia, che avrebbe senz’altro deliberato nell’urgenza. La soluzione quindi ci sarebbe stata, se solo si fosse stati accorti nell’obbligo di consultazione con la Corte, prevista «senza ritardo, in modo da risolvere la questione».

La questione dunque va ancora posta sulla incompleta attuazione dello Statuto della Corte nell’ordinamento nazionale: la legge 20 dicembre 2012, n. 237 (Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale) è stata molto criticata dagli internazionalisti perché si presta a confondere il regime della “consegna” dell’arrestato con il procedimento estradizionale. Rispetto ai provvedimenti della Corte non è consentito un sindacato ampio e discrezionale come quello previsto per i mandati emessi dagli Stati (come nel caso Abedini con gli Usa).

In primo luogo, lo Statuto di Roma reca norme sostanziali e procedurali – come il vaglio della pre trial chamber – più che esaustive in tema di garanzie difensive e di equo processo. In particolare sull’esecutività diretta dei mandati d’arresto della Corte occorre fare riferimento alla Parte IX, Art. 86 e ss. dello Statuto di Roma: si tratta di un modello di “repressione diretta” che supera la consueta cooperazione interstatale basata sull’estradizione. Per questo nello Statuto è adottata la nozione di “consegna” – surrender o remise – per sottolineare l’obbligo specifico di cooperazione degli Stati.

In sostanza, si impone la rinuncia dello Stato all’esercizio di discrezionalità nel valutare la potestà punitiva, mentre allo Stato incombe l’obbligo di custodia e di affidamento dell’indagato alle responsabilità della Corte. Il quadro giuridico è chiaramente delineato da Ida Caracciolo (Dal diritto penale internazionale al diritto internazionale penale, 2000): 1) la repressione dei crimini internazionali dell’individuo viene esercitata non più uti singuli bensì uti universi; 2) la Corte esercita la giurisdizione «ad un livello sovraordinato agli Stati, nell’interesse diretto della Comunità internazionale», e secondo altri autori «dell’ordine pubblico internazionale».

In materia di crimini di guerra e contro l’umanità prevale il diritto internazionale e sussistono obblighi di cooperazione “rafforzata”, imposti anche dalle Convenzioni di Ginevra: l’Italia non è affatto «sovrana» nel disconoscere i crimini internazionali. Su questo punto anche un supposta “ragione di stato” legata ai possibili interessi dell’Italia (quali le ritorsioni con pressioni migratorie, minacce agli italiani e alle aziende presenti in Libia) solleverebbe molti interrogativi dal punto di vista politico, giuridico ed etico: se così fosse l’Italia avrebbe ceduto al ricatto di un Paese collassato come la Libia, ridando la libertà ad un soggetto gravato da seri indizi di colpevolezza per reati gravissimi, come omicidi, torture e stupri anche di minori.

Non certo una bella ‘ragione di Stato’ per l’Italia consegnata all’attuale governo ancora «libera e democratica».

L’Italia non può arretrare 

Purtroppo i segnali di una progressiva incertezza dell’Italia sui principi della giustizia penale internazionale si vanno susseguendo da tempo. Emblematico è il ritardo nel varare il Codice dei crimini internazionali, che dovrebbe dare definitiva attuazione alle previsioni dello Statuto della Corte penale internazionale. Il progetto inziale elaborato da una Commissione ad hoc recepirebbe ancora alcune riserve sulle immunità davanti ai tribunali interni ed è stato espunto nella parte dei crimini contro l’umanità: secondo alcuni osservatori si teme che qualche giudice nazionale possa incriminare i leader governativi anche nel caso di violenze delle polizie e di trattamenti disumani nelle carceri e a carico di migranti.

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Per ultimo l’Italia non si è unita ai 79 Stati che hanno deciso di condannare l’order executive emesso dal presidente Trump contro i giudici della Corte che hanno emesso il mandato d’arresto nei confronti di Netanyahu. Sul tema già ai massimi livelli politici in Italia si è eccepito che il mandato d’arresto nei confronti del premier israeliano non sarebbe stato eseguito nel caso di una visita del leader, perché sarebbero operanti le immunità previste per i Capi di Stato e di governo.

L’affermazione sradica – anche sotto il profilo logico – tutto il sistema di repressione dei crimini di guerra e contro l’umanità: di fronte alle atrocità di massa diffuse in maniera sistematica e nell’ambito di un ‘piano’ generalizzato l’intento è proprio colpire i leader politici e militari responsabili. La regola è stata conclamata con la Risoluzione Onu A/RES/95 (I) sui principi di diritto internazionale «riconosciuti» nello Statuto e nella sentenza del Tribunale di Norimberga, come all’art. IV della Convenzione sul genocidio, nell’art.7, par. 2 dello Statuto del Tribunale per la ed Jugoslavia, nell’art. 6 par. 2 di quello per il Ruanda, oltre che per ultimo all’articolo 27 dello Statuto della Corte penale internazionale.

Una prospettiva ancora più incisiva sul tema della irrilevanza delle immunità è stata offerta di recente da Chile Eboe Osuji, ex presidente della Corte penale internazionale dal 2018 al 2021. Su Verfassungsblog il giurista argomenta che l’irrilevanza delle immunità come gli altri principi dello Statuto di Roma attengono al primato dell’ ‘ordine pubblico internazionale’, un elemento «primordiale» del diritto internazionale generale che trascende i vincoli del diritto dei trattati (articolo 53 della Convenzione di Vienna) e di qualsiasi norma nazionale che riconosca ancora immunità nel caso dei crimini internazionali.

Sostenere la Cpi

Anche se Federazione Russa, Stati Uniti e Israele non sono fra gli Stati contraenti, in atto la Corte penale internazionale è riconosciuta da 125 Stati, e l’Italia è stata tra le prime Nazioni che hanno firmato e ratificato lo Statuto. Anche il mondo accademico dovrebbe rinnovare con più convinzione il suo contributo per superare le resistenze e la scarsa memoria su un percorso culminato in Italia con l’approvazione dello Statuto di Roma nel 1998.

Occorre perciò pensare a misure che rendano direttamente esecutivi i provvedimenti della Corte, e in generale che attuino una concreta cooperazione degli organi giudiziari nazionali. Sul punto potrà essere utile un altro strumento internazionale in corso di definizione: il maggio 2023 a Lubiana le delegazioni di oltre 70 stati, organizzazioni internazionali e gruppi della società civile hanno sottoscritto la “Convenzione di Lubiana e dell’Aia” sulla cooperazione internazionale in materia di cooperazione giudiziaria per i crimini di diritto internazionale.

Tra le previsioni della Convenzione vi sono un regime dettagliato di assistenza giudiziaria tra gli Stati (art.23-48) e disposizioni volte a facilitare i procedimenti estradizionali (art.49-65). Il monito è stato lanciato anche dal Presidente dalla Commissione sul progetto del Codice dei crimini internazionali, Franceso Palazzo: «Non è pensabile che l’Italia non ratifichi la Convenzione di Lubiana-l’Aja, ponendosi così fuori dal sistema dalla giustizia penale internazionale». Se non si vuole rinnegare il senso di una cultura giuridica, l’Italia non può rinunciare a farsi attiva promotrice dei principi della giustizia penale internazionale.

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