L’Italia aveva fatto da apripista per la Corte, ora fa da apripista contro. Non difendendo la Cpi dall’assalto di Trump, il governo ci isola rispetto al resto dell’Ue e va pure in una direzione antistorica
«La Corte penale internazionale (Cpi) ormai è delegittimata, non se la fila più nessuno». Così sosteneva Lucio Caracciolo qualche giorno fa nel corso di una puntata di Otto e Mezzo. Ha convinto Giorgia Meloni e i suoi ministri.
Ma la cosa deve essere sfuggita a ben 79 Stati membri della Cpi – tra cui quasi tutti i paesi Ue, la Gran Bretagna, la Norvegia, il Canada, il Messico, il Brasile e la Nigeria – che si sono apertamente schierati contro le sanzioni stabilite pochi giorni fa dal presidente degli Stati Uniti nei confronti della stessa Cpi, rea di aver emesso un ordine di cattura nei confronti di Netanyahu, Gallant e di diversi esponenti di Hamas per crimini di guerra e contro l’umanità.
Ad avviso della presidente della Corte, Akane, le sanzioni Usa costituiscono «un grave attacco al diritto internazionale» e «mirano a minare la capacità della Corte di amministrare la giustizia in tutte le situazioni». Secondo il documento firmato dai due terzi degli stati aderenti alla Cpi, la scelta di Trump contribuisce in modo decisivo ad aumentare «il rischio dell’impunità» nel mondo. A fronte dell’importante ondata di supporto internazionale, avvalorata dalla stessa Ue, l’Italia è rimasta – assieme alle sole Ungheria e Repubblica Ceca – l’unico paese europeo aderente alla Corte a non aver sottoscritto il documento, finendo di fatto con il sostenere la linea americana e isolandosi all’interno dell’Unione.
Tale scelta si somma al gravissimo comportamento tenuto dal governo italiano nell’ambito del caso di Osama Elmasry Njeem (meglio conosciuto come Almasri) che aveva già contribuito a peggiorare il clima tra l’Italia e la Corte dell’Aia.
La premier contro la storia
Il governo Meloni quindi contribuisce a ostacolare l’azione di un’istituzione che non solo costituisce uno dei vertici della fragile civiltà giuridica globale ma che è frutto di un successo italiano. Infatti l’Italia fu, insieme al Canada, il paese che più si impegnò per ottenere la Corte grazie anche alla convergenza tra governi di entrambi gli schieramenti.
Il ruolo dell’Italia fu allora riconosciuto da tutta la comunità internazionale, tanto che il trattato istitutivo della Cpi fu firmato proprio a Roma il 17 luglio 1998. Per dare maggiore solennità all’occasione, il governo italiano volle che il trattato fosse firmato in Campidoglio nella stessa sala dove nel 1957 furono firmati i trattati CEE.
I paesi occidentali, tra cui l’Italia, fecero di tutto per ottenere l’adesione degli Stati Uniti alla Corte, motivati dall’idea che ci dovesse essere un fronte comune delle democrazie a difendere i diritti umani. Purtroppo gli Usa furono uno dei sette paesi che votarono contro l’approvazione dello Statuto alla Conferenza del 1998. Successivamente l’amministrazione Clinton firmò il trattato che tuttavia non venne poi ratificato. Oggi gli Stati Uniti, da paese un tempo vicino all’adesione, sono passati all’attacco della Corte stessa che andrebbe difesa dai suoi promotori.
Che il governo italiano rinneghi la propria storia lo si è visto nel caso Almasri. Una delle ragioni per cui è stata istituita la Cpi è proprio quella di evitare che siano i singoli stati a dover sostenere l’onere politico di processare i criminali di altri stati. Sarebbe stato facilissimo trasferire Almasri presso la Corte dell’Aia e far sì che venisse espletato il processo. È quindi ineccepibile che i membri del governo italiano che si sono resi responsabili della vicenda siano ora indagati per favoreggiamento.
La Corte è viva e lotta
Al contrario di quanto dicono nomi noti, la Cpi ha dato in tempi recenti importanti segni di vita. Con l’incriminazione di Putin nel marzo 2023 e di Netanyahu nel maggio 2024, la Corte ha colpito capi di governo in carica di due stati potenti. Dopo questi casi, non si può più dire che la Cpi sia uno strumento occidentale volto a penalizzare il resto del mondo a fini imperialistici. Darla per morta contribuisce quindi a distruggere la legalità e a sostituire il diritto internazionale con la legge della giungla.
Oggi l’Italia si schiera dalla parte sbagliata, isolandosi politicamente all’interno dell’Ue e appoggiando una scelta volta ad affossare il funzionamento della giustizia internazionale. Essa inoltre finisce per andare contro se stessa, ripudiando quanto di buono fatto a suo tempo in quest’ambito nel nome di un interesse nazionale che oggi sembra essere completamente evaporato. Osservando la sudditanza pelosa al nuovo corso distruttivo statunitense e il sostegno a paesi e attori che violano apertamente i diritti umani e il diritto internazionale, torna tristemente alla mente una celebre invettiva dantesca: «Ahi serva Italia!».
Daniele Archibugi insegna all’università di Londra, Birkbeck, ed è dirigente del Cnr. Tra i suoi libri, “Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali”. Tommaso Visone insegna storia del pensiero politico alla Link e Political Thought of Colonization and Decolonization alla Sapienza
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