Il Sanremo degli Anelli: ecco perché è un Festival di destra

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“Conti è un hobbit”, dice l’ad Rossi della Rai. Ecco come al Festival nasce il partito della Nazione


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Sanremo, dal nostro inviato. “Ma non lo vedi che Carlo Conti è un hobbit?”. E d’altra parte gli hobbit, come il conduttore veterano, non si occupano di politica, non sono bellicosi, non amano le avventure né le esplorazioni. E Giampaolo Rossi, amministratore delegato della Rai, appoggiato a una balaustra in un angolo del teatro Ariston, mi descrive così questo settantacinquesimo Festival, il primo veramente di destra, sembra pensare il capo della Rai. E senza bisogno di invitare Elon Musk. O forse il primo del nuovo partito della nazione, chissà, quello vagheggiato poche settimane fa da Arianna Meloni: il partito (o il Festival?) in cui tutti si riconoscono. “Tutte le età, tutte le estrazioni, tutte le anime del nostro paese”. Nazione, prego. “Sì, Nazione”

 

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Amadeus cercava il colpo di scena, la provocazione, Ghali con il pupazzo e il genocidio dei palestinesi, le canzoni di D’Argen sui migranti, i monologhi di “pensati libera” (dai pandori), i baci omo e le mossette, Fedez e Rosa Chemical: “Un immaginario politico”. Carlo Conti non costruisce nulla, non crea le cosiddette “situazioni”, non invita i trattori sul palco per farsi dire di no dalla Rai, e nessuno per esempio, martedì sera, ha avuto la tentazione di organizzare una finta contestazione in sala mentre si esibiva la cantante israeliana Noa con la palestinese Mira Awad. Anzi, al contrario, si temeva una contestazione “spontanea” che poi invece non c’è stata anche per la grande attenzione della sicurezza che circonda il teatro Ariston. L’anno scorso c’era sempre una scaletta pubblica e poi altre due o tre alternative, e i copioni idem, pieni d’incastri ipotetici e invenzioni potenzialmente pirotecniche, pensate per far esplodere un caso al minuto, e tenuti segreti, tanto che gli autori dei testi, si diceva con ironia, dormivano da soli temendo di tradirsi nel sonno. E tenevano quei copioni sotto il cuscino.

 

Questo Sanremo è completamente diverso. “Il mio sogno sarebbe un Festival di sole canzoni”, dice per esempio Giancarlo Leone, ex direttore di Raiuno, uno di casa al Festival (“ne ho fatti cinque”) e oggi autore d’eccezione di Carlo Conti assieme a Emanuele Giovannini, Ivana Sabatini, Leopoldo Siano e Walter Santillo, che sono la squadra di tutte le trasmissioni televisive del conduttore che oggi incarna la modalità televisiva di questa destra di governo. Quella destra che, come dice l’amministratore delegato della Rai Rossi, un uomo che viene dalla militanza  e che consigliava i libri da leggere alla giovanissima Giorgia Meloni, “cerca l’armonia della normalità”. La sobrietà.  

 

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E gli ascolti? I telespettatori sbadigliano? Pare di no. 12,6 milioni di spettatori, tra tv e tutte le piattaforme digitali: 65.3 per cento di share. Eppure c’è il rischio noia, forse, a volte. Ma ci pensano Cristiano Malgioglio (vestito dal suo amico Franchino: “Cambierò cinque abiti, in stile Joan Crowford”) e Nino Frassica (“a me invece mi veste Francesco Gabbani”), a spezzare la musica e la gara, questa “armonia” appunto, con la loro comicità. Anche se soprattutto, specie ieri sera, i due sono serviti ad allungare il programma, ieri di sole quindici canzoni, fino all’una e dieci di notte, ovvero fino all’orario tassativo per raggiungere l’ultimo di quei break pubblicitari strapagati che hanno consentito alla Rai di incassare la ragguardevolissima cifra di sessantasette milioni di euro. Tutta musica, dunque, gara, niente politica, niente gender, nessuna invenzione, nessun pronunciamento, nessun pensierino letto dal palco. Un po’ di vena comica, sì, un po’ di humor pacioso e rassicurante, come quello portato  da Gerry Scotti martedì sera, con Antonella Clerici massaia in abito strizzato, a compensare quell’eccesso di equilibrio quasi democristiano che però è proprio la cifra rivendicata dall’amministratore Giampaolo Rossi, e dalla destra di governo che lo ha voluto a capo della Rai, secondo un principio che suona all’incirca così: il Festival è la Rai, la Rai è l’Italia, e l’Italia (ormai) noi la rappresentiamo tutta. Forse. 
 





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