libereremo gli ostaggi come da accordi

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Immagini di distruzioni a Gaza – Ansa

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Sabato. A mezzogiorno. Tutti. È una prova di forza quella tentata dal presidente americano Donald Trump sul rilascio degli ostaggi israeliani a Gaza. Ed è una prova di forza che rischia di minare, o è intesa a farlo, la tregua nata fragile il 19 gennaio per celebrare il suo insediamento. Illuminanti le parole del Segretario di stato americano, Marco Rubio: quello in vigore «è un cessate il fuoco, ma non è un cessate il fuoco stupido». Fuor di metafora: «Non si può consentire a Hamas di usare il cessate il fuoco per ricostruirsi e recuperare le forze». Passata la festa a Washington, potrebbe essere il momento di voltare pagina a Gaza. Il presidente «è stufo di aspettare per una, due o al massimo tre persone alla volta», ha detto Rubio riferendosi allo stillicidio del rilascio degli ostaggi, peraltro conforme all’accordo di Doha. Ne mancano nove, più otto cadaveri, per arrivare ai 33 concordati per la prima fase (ne resteranno 60). Per sabato è atteso il rilascio di tre. Hamas aveva minacciato di bloccarlo accusando Israele di intralciare l’ingresso degli aiuti concordati, ma ieri il suo portavoce, Sami Abu Zuhri, ha detto ad al-Jazeera che il gruppo è «impegnato» a rispettare il calendario concordato nell’accordo di tregua e dunque rilascerà gli ostaggi come previsto. Non i «tutti» chiesti da Trump.

Entro il 1° marzo, allo scadere della prima fase, dovrebbero essere definiti i dettagli della successiva. Una delegazione di Hamas è andata ieri al Cairo, fonti palestinesi riferiscono dell’impegno dei mediatori egiziani e qatarioti, ma la trattativa che avrebbe dovuto avviarsi dieci giorni fa non è mai decollata. Buona parte dell’opinione pubblica israeliana si augura che la tregua regga, almeno finché non saranno tornati tutti i rapiti. Ma i segnali contrari sono tanti. All’ultimatum di Trump di «scatenare l’inferno» ha fatto eco il Gabinetto di sicurezza israeliano che ha confermato la scadenza. Sono già stati richiamati i riservisti. Il ministro della Difesa, Israel Katz, ha detto: «Se Hamas ferma il rilascio, allora non c’è accordo e ci sarà la guerra». La ripresa delle ostilità «sarà diversa nell’intensità rispetto a prima del cessate il fuoco e non finiremo senza la sconfitta di Hamas». La nuova guerra, ha aggiunto, «consentirà anche la realizzazione della visione del presidente degli Stati Uniti Trump per Gaza». Un portavoce della Brigate al-Quds, il braccio armato della Jihad, ha minacciato via Telegram: «Le sorti dei prigionieri sono direttamente collegate alle azioni di Netanyahu». Nel gioco delle parti, l’impressione è che entrambe abbiano interesse alla prova di forza. Il governo di Benjamin Netanyahu ha accettato gli accordi di Doha suo malgrado, costretto dalla pressione di Trump. Ed è sollevato nel sentirla allentata, anzi indirizzata in senso contrario. Hamas e la Jihad hanno mostrato in diretta televisiva, nelle scene oltraggiose dei rilasci, di avere rimpiazzato con nuove leve le decine di migliaia di perdite subite. E di disporre di armi, nonché di un certo consenso tra la popolazione, alimentato dal forte risentimento anti israeliano. La prima tregua durò dieci giorni, fra novembre e dicembre del 2023. Questa rischia di essere solo più lunga.

Di certo, non erano mosse da intenzioni pacificatrici le dichiarazioni di Trump sulla futura presa di possesso di Gaza da parte degli Usa e dei loro interessi immobiliari e strategici, previa rimozione di tutti gli abitanti. Egitto e Giordania, citati come i vicini che se li sarebbero dovuti accollare, hanno reagito sdegnati. Il Cairo ha annunciato che presenterà un suo piano per la ricostruzione della Striscia che «garantisca che i palestinesi rimangano». E il presidente Abdel Fattah al-Sisi non andrà a Washington se l’agenda dei colloqui includerà il piano Usa. Il segretario generale della Lega Araba, Ahmed Abul Gheit, ha dichiarato: «Non so cosa stia passando per la testa di Trump», ma «se continua a fare pressione sul popolo di Gaza, sul mondo arabo, sugli egiziani, sui giordani, sui sauditi e su tutte le potenze regionali, invece di risolvere la questione palestinese condurrà il Medio Oriente in un nuovo ciclo di conflitti». Un’eventualità, per alcuni, persino auspicata.





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