“Non si saprà più a chi vengono vendute”

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Il governo italiano propone di modificare la legge 185/90, riducendo trasparenza e controlli sulle esportazioni di armi. Opposizioni e società civile denunciano il rischio di favorire l’industria bellica a scapito di vincoli etici e normativi. La discussione sulla riforma è rinviata a marzo.

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Il governo vuole modificare la legge 185 del 1990, cioè quella che regola l’export di armi italiane e che oggi impone trasparenza e controlli sulle vendite all’estero. La riforma, criticata da associazioni ed esponenti dell’opposizione come Pd, Avs e M5S, ridurrebbe ora il controllo parlamentare e gli obblighi per le banche di comunicare le operazioni finanziarie legate all’export, rendendo così più difficile tracciare i flussi di armamenti.

“La trasparenza sul commercio di armamenti è un principio fondamentale, ma oggi rischiamo di perderla”, dichiara Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana Pace e Disarmo, a Fanpage.it.

Le opposizioni e numerose organizzazioni della società civile accusano così il governo di voler smantellare le tutele esistenti per favorire gli interessi dell’industria bellica, mettendo a rischio il rispetto di norme internazionali e principi costituzionali.

Cosa prevede la riforma

Il disegno di legge modificherebbe profondamente la legge 185/90, eliminandone alcuni pilastri fondamentali. Le principali criticità riguarderebbero tre aspetti: una riduzione del controllo parlamentare, una minore trasparenza e un accentramento delle decisioni in capo al governo. Le esportazioni di armamenti attualmente vengono vagliate da diversi organi istituzionali e il Parlamento riceve una relazione annuale che permette di tracciare il commercio di armi e il ruolo delle banche nel finanziamento di tali operazioni. Con la riforma, questa relazione verrebbe ridotta e depotenziata, rendendo più difficile monitorare il flusso degli armamenti italiani all’estero. Non solo, ci sarebbe un altro elemento chiave, cioè la reintroduzione del Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento (CISD), un organismo composto da rappresentanti del governo con il potere di annullare i divieti di esportazione imposti dal Ministero degli Esteri, senza l’obbligo di rendere pubbliche le motivazioni. Di fatto, questo significa che il governo avrà mano libera nel decidere a chi vendere armi, senza doverne rendere conto né al Parlamento né all’opinione pubblica.

A essere depotenziata sarà anche l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (UAMA), il dipartimento del Ministero degli Esteri che attualmente si occupa di valutare e concedere le autorizzazioni all’esportazione, garantendo il rispetto delle norme nazionali e internazionali. Con la nuova normativa, il ruolo dell’UAMA verrebbe ridimensionato, rendendo più difficile un controllo indipendente sulle operazioni di export.

“Con la scusa di semplificare le procedure, si introduce un meccanismo che impedisce una regolamentazione efficace dell’export, riducendo il controllo sugli armamenti e sul rispetto delle norme internazionali”, denuncia Francesco Vignarca.

Una legge in contrasto con le norme europee e internazionali

Le modifiche alla legge 185/90 entrerebbero in conflitto con diversi impegni assunti dall’Italia anche a livello internazionale. Nel 2024, un rapporto della Commissione Europea sulla corruzione nel settore della Difesa ha evidenziato come l’opacità e la mancanza di controlli favorissero pratiche illecite. La riforma voluta dal governo andrebbe proprio nella direzione opposta, aumentando le aree grigie nel commercio degli armamenti e riducendo la possibilità di verificare il rispetto delle normative internazionali. Questo provvedimento non farebbe poi alcun riferimento al Trattato ONU sul commercio delle armi, firmato dall’Italia nel 2014, che imporrebbe criteri stringenti per impedire la vendita di armi a Paesi coinvolti in conflitti o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani: “Il governo ha respinto ogni proposta di inserire un riferimento al trattato ONU. Questo conferma la volontà di mantenere ambiguità nelle autorizzazioni, invece di adottare criteri chiari e vincolanti”, ha dichiarato Vignarca.

Un ulteriore passo indietro riguarderebbe il coinvolgimento delle ONG specializzate nel monitoraggio e denuncia del commercio di armi, che finora hanno avuto un ruolo di interlocuzione con le istituzioni. Con la riforma, il governo eliminerebbe qualsiasi riferimento a questo dialogo, riducendo così ulteriormente la possibilità di un controllo indipendente.

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Il nodo delle banche e il rischio di affari poco trasparenti

Uno degli aspetti più controversi della riforma sarebbe poi l’eliminazione dell’obbligo per le banche di comunicare le operazioni finanziarie legate all’export di armamenti. La legge 185/90 così com’è impone infatti agli istituti di credito di trasmettere dati al Ministero dell’Economia, che poi li include nella relazione annuale al Parlamento. Questo sistema garantisce ovviamente un minimo di trasparenza sulle transazioni legate alla vendita di armi. Con la nuova normativa, invece, queste informazioni non potranno più essere accessibili, rendendo impossibile tracciare i flussi finanziari del settore.

“Questo è solo un favore ai mercanti di armi”, denuncia Vignarca. “Prima era già difficile contestare certe operazioni, ma almeno avevamo un appiglio. Se questa riforma passa, non solo sarà quasi impossibile fermarle, ma finiremo per non conoscerle nemmeno”, ha concluso.

Il ruolo del porto di Genova

Mentre il governo spinge per modificare la legge 185/90, nei porti italiani cresce la mobilitazione proprio contro il traffico di armi: a Genova, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) è da mesi in prima linea nel bloccare le spedizioni di armamenti destinati a Paesi in guerra.

José Nivoi, portavoce del CALP, esprime forte preoccupazione per la modifica della legge 185/90. A Fanpage.it denuncia come questa normativa, nata per regolamentare il commercio bellico, sia stata costantemente elusa nel corso degli anni. Secondo il collettivo, le recenti manovre legislative puntano a smantellare gli ultimi vincoli ancora esistenti, favorendo gli interessi delle grandi aziende del settore militare: “La legge 185/90 è stata fatta in un momento di follia, almeno rispetto alle politiche che hanno caratterizzato i governi successivi”, afferma Nivoi. “Imponeva limiti più stringenti sulle esportazioni di armi, un ostacolo, da sempre, per i produttori del settore. Hanno sempre trovato comunque il modo di bypassarla o di far finta che non esistesse”, sottolineando come lo Stato abbia sistematicamente aggirato le restrizioni.

Il nodo del controllo sulle esportazioni

Negli anni, il CALP ha presentato numerosi esposti per chiedere conto del rispetto della legge sull’export delle armi, oltre a organizzare blocchi fisici nei porti: “Chi deve far rispettare questa normativa? La Prefettura? La Capitaneria di Porto? Le Dogane? L’Autorità Portuale?”, si chiede Nivoi. “L’unica risposta ricevuta è arrivata dalle Dogane, con un’unica giustificazione: sostengono che se una nave carica armi ma non effettua operazioni doganali da mare a terra, non si verifica una violazione della legge. C’è però un articolo della normativa che vieta il transito e la spedizione di armi dall’Italia verso paesi coinvolti in conflitti armati. È insomma un modo di aggirare la legge”.

Ora, la modifica della 185/90 non solo ridurrebbe ulteriormente i vincoli, ma eliminerebbe anche l’obbligo di rendicontare annualmente le esportazioni di armi: “Vogliono cancellare ogni traccia di dove finiscono le armi italiane e a chi vengono vendute, concedendo carta bianca agli interessi economici del comparto militare”, denuncia il portavoce del CALP.

Il legame tra politica e industria bellica

Secondo Nivoi, il tentativo di riscrivere la legge è il sintomo di una più ampia convergenza tra governo e lobby delle armi: “Quando lo Stato inizia a modificare le leggi per favorire Leonardo, Fincantieri o altre aziende del settore, è evidente che si trova in difficoltà. È il segno che qualcuno ha iniziato a chiedere conto del rispetto di queste normative e che il potere politico si sta muovendo per proteggere gli interessi dei colossi dell’industria bellica”.

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Ma il caso più eclatante, secondo il portavoce Calp, riguarda il ministro della Difesa Guido Crosetto: “Prima di entrare al ministero con il governo Meloni, era il principale lobbista di Leonardo, colosso dell’industria militare. Nel 2023 ha incassato moltissimi soldi per favorire accordi tra Stato e Leonardo. Un fatto gravissimo, considerando che l’Azienda è in parte controllata dallo Stato stesso”.

Intanto nel dicembre 2023, l’Italia ha esportato armamenti verso Israele per un valore di 1,3 milioni di euro, mentre nel 2024 ha già raggiunto i 6,3 miliardi di esportazioni verso zone di conflitto. Numeri che fanno discutere, considerando che la legge 185/90 e la Costituzione vietano la vendita di armi a nazioni coinvolte in guerre o responsabili di violazioni dei diritti umani.

Quali sono le prossime mosse

Dopo giorni di scontro nelle commissioni Esteri e Difesa della Camera, la discussione sulla riforma è stata tuttavia ufficialmente rinviata a marzo: le opposizioni, grazie a un’azione di forte ostruzionismo, sono riuscite a guadagnare tempo per cercare di bloccare il provvedimento. Durante l’Ufficio di Presidenza, i capigruppo di Alleanza Verdi e Sinistra (AVS), Movimento 5 Stelle (M5S) e Partito Democratico (PD) hanno ribadito la necessità di non stravolgere una legge che per oltre trent’anni ha garantito trasparenza e controllo sull’export di armi.

“Stravolgere e depotenziare la legge 185/90 significherebbe tradire i principi della nostra Costituzione e del Trattato internazionale sulle armi”, dichiarano le opposizioni in una nota congiunta. “Auspichiamo che il governo abbandoni ogni tipo di forzatura: sarebbe un grave errore intaccare una normativa approvata con il consenso di tutte le forze politiche nel segno della trasparenza”.

Ora l’opposizione ha un mese di tempo per fare pressione sul governo e sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi di questa riforma. Se il governo non accetterà modifiche sostanziali, a marzo lo scontro in Aula potrebbe diventare ancora più duro.





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