Autonomia rimandata – IL MONDO


Niente referendum sull’autonomia differenziata: ci ha già pensato la Corte a smontare le criticità. Il Governo rivendica un lasciapassare, ma cosa ne sarà del testo?

La Corte Costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità del referendum per abrogare la legge n. 86/2024 sull’autonomia differenziata. Parafrasando l’appello della Consulta con l’aiuto di Gramsci, diremmo che tanto il legislatore quanto i ricorrenti dovranno essere “pessimisti con l’intelligenza, ma ottimisti per la volontà”. Capiamoci.

Partiamo dalla volontà, che è già scritta nella nostra Carta. Con la riforma del Titolo V (l. cost. n. 3/2001) si sono infatti già poste le basi per l’applicazione del principio costituzionale del regionalismo differenziato. Ora con questa legge il Governo ha voluto muovere un passo ulteriore, definendo in modo “puramente procedurale” l’attribuzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Se per alcuni (vedi CGIL) il regionalismo differenziato ormai è “una salma”, non si può nemmeno dimenticare che furono proprio le Regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) nel 2017 a chiedere “forme ulteriori e condizioni particolari di autonomia”, ai sensi dell’articolo 116, comma terzo, della Costituzione. Nel 2018 rispettivamente Roberto Maroni, Luca Zaia e Stefano Bonaccini arrivarono a firmare accordi preliminari con il Governo Gentiloni in tal senso, in attesa di una riforma coerente che definisse i limiti di azione e assicurasse il rispetto dei principi costituzionali. Il dietrofront dell’Emilia Romagna, tra le Regioni ricorrenti contro la legge, è di facile strumentalizzazione politica, se la polemica è tutto ciò che ci interessa. Il punto cruciale che si perde nei battibecchi salottieri e oltranzisti dei talk show non è “se”, ma “come”. «Io per primo chiesi che il Parlamento definisse i LEP e le risorse per assicurarli, fondi che non ci sono e non ci saranno» spiega Bonaccini, a meno che “come torna a chiedere la Lega, maggiore autonomia non voglia dire trattenere gran parte delle tasse nel proprio territorio”, e “questo allora si chiama secessione”.

Maurizio Landini, segretario generale Cgil, a Genova per un incontro con il sindacato genovese ‘Una e indivisibile fondata sul lavoro e sui diritti’, Genova, 23 gennaio 2025.
ANSA/LUCA ZENNARO

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Il 20 gennaio inaugura ufficialmente l’anno referendario per l’Italia. Lo stesso giorno infatti la Consulta ha approvato i quattro quesiti referendari proposti dalla CGIL sulla parziale abolizione del Jobs Act, nonché quello per dimezzare i tempi di residenza (da 10 a 5) per la richiesta di cittadinanza italiana. Crediti: ANSA/LUCA ZENNARO

Si è così strutturato attorno alla legge un famigerato Fronte del No, quantomeno composito, che ha raccolto quasi tutte le forze di opposizione (unico bastian contrario Carlo Calenda, che pur non aderendo allo strumento del referendum ha comunque condiviso le criticità sollevate) ma anche realtà associazionistiche di vario genere, dal WWF alla Federazione per i diritti degli anziani, passando per Libera, associazioni Arci e Acli e confederazioni di medici. A presiedere il Comitato promotore del referendum è il costituzionalista Giovanni Maria Flick, già ministro della Giustizia nel Governo Prodi I e presidente emerito della Corte Costituzionale. Secondo diversi speculatori politici, persino Giorgia Meloni spera che il progetto di riforma, una bandiera tutta leghista, naufraghi. Se non altro, per l’impronta spiccatamente statalista e accentratrice del suo Partito. Sarebbe poi un peccato mortale dimenticare la battaglia promossa nel 2014 dalla deputata Meloni per “abolire” le Regioni, abrogare l’articolo 116 della Costituzione e dismettere quel “regionalismo differenziato” reo di favorire “l’iperterritorializzazione della maglia amministrativa, con frequenti sovrapposizioni di competenze territoriali e con moltiplicazione delle disfunzioni della pubblica amministrazione, tali da rendere difficoltosa la garanzia di standard adeguati e finanche minimi dei servizi”. La sua proposta costituzionale prevedeva l’istituzione di 36 nuove Regioni, in sostituzione delle attuali 20 e di tutte le Province, abolendo persino i regimi di statuto speciale. Quantomeno, si potrà dire, aveva sostanzialmente ragione nel ricordare alle forze di sinistra, insorte dopo il disegno di legge di Calderoli, che l’autonomia “era in già in Costituzione” grazie a loro, di certo non lei. È così che mentre la Corte indica la luna, la politica si impantana a bisticciare su quale dito abbia usato per farlo. La logica della Consulta è in realtà semplice: nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale pronunciato lo scorso 14 novembre a seguito dei ricorsi di cinque Regioni contro la legge, la Corte ha parzialmente accolto la questione di costituzionalità, stabilendo l’illegittimità della legge solo in alcuni suoi disposti ma smontandone, di fatto, l’impianto. Il regionalismo, precisa subito la Corte, “corrisponde ad un’esigenza insopprimibile della nostra società”, ma le criticità evidenziate nella legge Calderoli sono almeno tre.

Il Fronte del No alla legge sull’autonomia differenziata ha raccolto tutti gli esponenti dell’opposizione. Crediti: ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

La sentenza 192/2024 boccia innanzitutto il trasferimento tout court di intere materie alle Regioni. Ogni singolo Ente dovrebbe invece concordare con lo Stato specifiche funzioni, indicando con precisione costi e benefici della distribuzione differenziata delle competenze per giustificarne il trasferimento – e successivamente valutare il successo o meno di esso. In questa ripartizione, vige a priori il principio della sussidiarietà. C’è poi il nodo dei LEP, Livelli Essenziali di Prestazioni, criteri qualitativi che fissano soglie minime dei diritti civili e sociali. Dentro questa sigla così fredda e anonima sono in realtà compresi indicatori come sanità, lavoro, ambiente, educazione, per dirne alcuni. La legge poneva in capo al Governo il compito di fissare i LEP che tutte le Regioni dovrebbero rispettare, a suon di DPCM prima e decreti legislativi poi. Un ambito di discussione che non pare adeguato alla Corte, secondo cui la delega legislativa che l’Esecutivo si auto-attribuisce è “priva di idonei criteri direttivi” e finisce per “limitare” il peso delle Camere lasciando temi così cruciali nelle sole mani del Governo, mentre spetta “solo al Parlamento il compito di comporre la complessità del pluralismo istituzionale”. La legge ammetteva anche la possibilità di stimare dei livelli “provvisori” basati sulla spesa storica statale registrata nella Regione interessata per le funzioni in oggetto. Una procedura che inevitabilmente avrebbe penalizzato le Regioni che già non raggiungono livelli soddisfacenti di servizi.

La Consulta ha poi demolito uno dei pilastri fiscali della riforma, riassunta nella “facoltatività” concessa alle Regioni di concorrere alla finanza pubblica, cosa invece insita nei “vincoli di solidarietà e unità della Repubblica” e dunque “doverosa”. La legge prevedeva che le Regioni che ricevessero finanziamenti potessero chiedere e ottenere agevolazioni erariali se i fondi ricevuti non dovessero portare i risultati sperati. Un controsenso in una legge che vuole premiare il merito e, come chiede anche la Corte, “assicurare una maggiore responsabilità politica”. Si boccia infine l’estensione della legge anche alle Regioni a statuto speciale che, per l’appunto, beneficiano già di analoghe procedure.

Giovanni Amoroso, il nuovo presidente della Corte Costituzionale. Crediti: ANSA/GIUSEPPE LAMI

Come insomma ha sintetizzato il nuovo presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, la legge “è un edificio da ricostruire” – essendo rimasto intatto solo “un perno”. Il referendum, chiedendo l’abrogazione della legge, avrebbe sottoposto al voto popolare proprio quell’unico perno costituito dall’articolo 116 della Costituzione. Come commentano i promotori della riforma? Il governatore Luca Zaia rivendica fiero “aspirazioni in piena aderenza con la Carta”, ed è ancora più contento Calderoli: «finalmente posso lavorare in pace senza più avvoltoi che mi girano sopra la testa». L’ottimismo della volontà è intatto, il pessimismo dell’intelligenza inascoltato.

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