Da Modena mons. Castellucci invita a vivere con speranza la morte


“Dopo il ritorno, il forte paga il debito con la morte. L’asciutta scritta latina dell’ultima scena del bassorilievo di Wiligelmo, nell’architrave della Porta dei Principi del Duomo di Modena, commenta così la morte di San Geminiano, avvenuta il 31 gennaio del 397, al ritorno dal suo viaggio a Costantinopoli, dove ‘il forte’ aveva guarito la figlia dell’imperatore. Il vescovo, secondo la tradizione, aveva 84 anni, all’epoca un’età molto avanzata: di qui deriva quella scritta, che fa pensare ad un passaggio dovuto (‘debito’), ma ormai atteso e naturale, senza la drammaticità da cui spesso è segnato l’ultimo respiro”.

Così inizia la lettera alla città (‘Più forte della morte è l’amore. La speranza non delude’) del vescovo di Modena-Nonantola, mons. Erio Castellucci, in occasione della festa del patrono san Geminiano, diacono del vescovo Antonio al quale successe per scelta dei suoi concittadini. Nel 390 (o, secondo altre datazioni nel 393) fu presente al concilio dei vescovi dell’Italia settentrionale, presieduto da sant’Ambrogio per condannare l’eretico Gioviniano. Per questo fu molto impegnato, insieme con altri vescovi della Romagna (san Mercuriale di Forlì, san Rufillo di Forlimpopoli, san Leo di Montefeltro e san Gaudenzio di Rimini), a combattere l’eresia ariana, molto diffusa in quella zona.

Nella lettera mons. Castellucci ha sottolineato che nel giorno della sua morte i concittadini non avevano un volto ‘triste’, in quanto era considerato come una nascita: “I personaggi che attorniano Geminiano, nella scena, mostrano infatti volti tristi ma non disperati e sono intenti a compiere i riti funebri in modo pacato. D’altronde il giorno della morte di un martire o, come nel caso del nostro patrono, di un cristiano con la fama di santità, veniva chiamato il ‘dies natalis’, il giorno della nascita”.

Appunto, la lettera prende spunto dal significato della morte: “Nella nostra cultura occidentale, piuttosto efficientista, vige una sorta di censura della morte e del morire. Siamo certo convinti della fragilità della condizione umana, così come la dipinge la Bibbia: ‘come l’erba sono i giorni dell’uomo, come il fiore del campo, così egli fiorisce’;

eppure i meccanismi di difesa che si attivano di fronte all’ultima soglia sono parecchi: alcuni reagiscono al pensiero della morte cercando di scacciarlo, di distrarsi e magari anche di stordirsi; c’è chi cade nel cinismo, maturando un’indifferenza di tipo stoico che vorrebbe raggiungere l’insensibilità, così da evitare la sofferenza; e c’è chi rimanda la questione a tempi peggiori, auspicando di doverla affrontare il più tardi possibile, quando sarà purtroppo inevitabile, o affidandosi eventualmente alla scaramanzia o alle pratiche magiche e superstiziose”.

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E’ un invito a vivere la morte senza angoscia, come ha fatto san Francesco o sant’Alfonso de’ Liguori: “Pochissimi, è vero, arriverebbero a definire la morte con l’affettuoso appellativo di ‘sorella’, come fece san Francesco d’Assisi otto secoli fa nel ‘Cantico delle creature’; e tuttavia molte persone la sostengono con dignità, senza cadere nella disperazione e, quando possibile, cercando di prepararsi. Uno dei libri più diffusi e letti per due secoli, da quando lo pubblicò nel 1758, è appunto ‘Apparecchio alla morte’ di sant’Alfonso Maria de’ Liguori: un manuale corposo, che offre tanti suggerimenti su come ci si possa avvicinare nella maniera più adeguata a questa soglia”.

Per questo il cristianesimo invita a vivere la morte come segno di speranza: “La fede cristiana, da parte sua, offre una prospettiva di grande speranza: la morte non è un muro contro cui vanno ad infrangersi sogni, sacrifici, desideri, sofferenze e gioie, progetti e speranze; è piuttosto un ponte, alto e vertiginoso, che conduce a un’altra sponda, dove troverà pienezza ciò che è stato costruito giorno per giorno nella vita terrena. Tutti i germi di amore e di bene, tutti i gesti di solidarietà e di giustizia, avranno compimento. Cristo arriva a dire che nemmeno il dono di un bicchiere di acqua fresca resterà senza ricompensa”.

La morte si trasforma nella resurrezione: “Per chi crede nel Signore morto e risorto, la morte è ormai parola penultima: inquietante e tuttavia penultima. L’ultima parola è la vita, la risurrezione, l’amore che vince. La speranza nella vita eterna sostiene i credenti e apre prospettive per tutti, anche per le moltitudini che in questa vicenda terrena sono emarginate e scartate, subiscono angherie e ingiustizie, nascono e vivono in situazioni svantaggiate e degradate. Se la morte fosse davvero la fine di tutto, non ci sarebbe riscatto per loro e trionferebbero per sempre coloro che operano il male. Questa è la ‘grande speranza’ cristiana: non solo per se stessi e per i propri cari, ma per tutti gli esseri umani”.

Anche la diffusione delle cure palliative offre una visione più aperta ed il vescovo ha invitato a potenziare queste esperienze per sconfiggere la cultura di morte: “Queste esperienze devono essere potenziate: oggi il sostegno economico è insufficiente ed è ripartito in modo diseguale sul territorio italiano. Coloro che vi operano, attestano che l’accompagnamento alla morte, sia del malato sia dei familiari, dei volontari e degli stessi operatori sanitari, può assumere una qualità e una profondità impensabili.

Più si creano reti di relazione autentiche ed intense attorno alla persona che si sta avvicinando alla morte e nei suoi cari, meno si creano le condizioni per chiedere l’eutanasia o il suicidio assistito. Senza negare che certe sofferenze siano di per sé devastanti e difficilissime da sopportare (quindi senza mai cadere nei facili giudizi sulle scelte altrui) ciascuno di noi ha sperimentato come un dolore, anche forte, si possa attraversare evitando la disperazione, quando si è sostenuti da una mano amica”.

E’ stato un invito a creare reti di ‘prossimità’ in grado di formare i ‘pellegrini di speranza’: “Il nostro territorio modenese è ricchissimo di esperienze di prossimità, anche nell’ambito dell’accompagnamento di coloro che percorrono l’ultimo tratto di vita e dei loro cari.

Sono migliaia le case nelle quali un familiare è sostenuto premurosamente, sono centinaia le strutture di assistenza e di cura, non si contano le collaboratrici domestiche impegnate nell’aiuto agli anziani e agli ammalati ed è stupefacente la dedizione di tantissimi volontari, anche nelle nostre comunità cristiane, religiose e civili.

Non sarà mai sufficiente l’espressione della nostra gratitudine. In particolare desidero ricordare un’attività poco conosciuta delle parrocchie: la cura degli ammalati, delle persone sole e dei familiari di chi subisce lutti”.

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