Il cantautore, con Brunori Sas, si è soffermato su temi che riguardano tutti noi, ma non sono mancate le critiche
Ci sono opere senza tempo. Come il Battesimo di Gesù di Piero della Francesca, un quadro rinascimentale che potrebbe essere una tela simbolista di fine Ottocento, o potrebbe essere stato dipinto ieri. Oppure, per venire alle canzoni, Il cielo in una stanza di Gino Paoli, che ha 65 anni ma è fresca come uno zampillo.
E ci sono opere datate, che nascono vecchie. Come Balorda nostalgia (un mix tra la celeste nostalgia di Cocciante e la nostalgia canaglia di Al Bano) di Olly: una canzone scritta ieri che potrebbe essere degli anni 50, l’era dei papaveri e delle papere prima di Modugno e di Paoli; così come la canzone con cui vinsero i Måneskin pareva una cover del rock anni 70. Ma per i loro coetanei è tutto nuovo; quindi va bene così, è giusto che li televotino.
È suonata più innovativa Volevo essere un duro di Lucio Corsi, vera rivelazione del festival. Fedez, personaggio controverso finché si vuole, ha confermato di essere un artista vero.
Ma le canzoni di Sanremo 2025 che resteranno sono altre due, non a caso entrate nella cinquina dei finalisti.
Brunori Sas ha cantato lo spaesamento di ogni genitore di fronte alla crescita rapida, improvvisa dei figli. Ha ragione: l’adolescenza dei nostri ragazzi dura cinque minuti; ci voltiamo un attimo, distratti dal lavoro e dalla vita, e non ci sono più, al loro posto c’è un’altra persona, che non possiamo fare a meno di amare, dilatando le dimensioni del nostro cuore, proprio come scrive Dario Brunori (Sas è un omaggio all’azienda dei genitori, Brunori lo aggiunse al suo nome d’arte quando morì il padre).
Simone Cristicchi ha cantato invece il suo amore e la sua cura per la madre malata di Alzheimer. Cristicchi è del 1977, come Brunori. Ha appena compiuto 48 anni. Ha l’età in cui molti di noi si sono accorti di essere mortali (ovviamente lo sapevamo anche prima, ma non ci pensavamo, e non venivamo svegliati di notte dai «pensieri tinti», pensieri di morte, come li chiama Andrea Camilleri), e si preparano a dire addio al padre e alla madre. L’età in cui avviene l’inversione dei ruoli: non è più la mamma e prendersi cura di noi; siamo noi a prenderci cura di lei, nella consapevolezza che non potremo mai restituirle appieno l’amore che ci ha dato. Il testo della canzone di Cristicchi, secondo me, è stupendo. Dal titolo, Quando sarai piccola, alla conclusione: «Ti stringerò talmente forte, che non avrai paura nemmeno della morte». Ad altri la canzone non è piaciuta; e la critica ovviamente è libera. Libero Francesco Merlo di definirla «una lagna».
Selvaggia Lucarelli ha scritto una cosa molto interessante: «Chi ascolta e basta una canzone ridondante si sente empatico, chi vive quella situazione si sente inadeguato. O cinico». In effetti, chi ha una madre anziana, debole, malata, ma intellettualmente più vivace di lui, a volte apprezza Quando sarai piccola più di chi ha una madre davvero malata di Alzheimer, cui l’ascolto del testo procura un dolore insopportabile o comunque un disagio.
Non conosco però una persona che non si sia commossa. E la misura del talento di un artista è anche la capacità di far piangere, così come di far ridere. Con la consueta ironia intelligente e dissacrante, Dagospia titola: «Cristicchi, da minchione a santone». In effetti Cristicchi in passato ha scritto canzoni demenziali e sarcastiche, ad esempio facendosi beffe del povero Biagio Antonacci e di Carla Bruni («Sarkonò e Sarkozy…»). Ma nulla esclude che un artista possa essere nello stesso tempo sentimentale e beffardo, profondo e lieve.
Al di là delle critiche, tutte legittime, colpisce il clima di disprezzo, ai limiti dell’odio, che non da oggi accompagna Cristicchi (accanto all’affetto dei suoi estimatori). Gli si imputa, tra le tante cose, di essere «di destra».
Fondamentalmente per due motivi. Ha criticato la gestazione per altri. E ha fatto uno spettacolo sulle foibe, che gli è costato contestazioni, occupazioni di teatri, minacce.
Ora, è possibile che la gestazione per altri — cioè pagare una donna povera per dare alla luce un figlio che non crescerà: non prendiamoci in giro, è così nella stragrande maggioranza dei casi — non sia una cosa di sinistra. Di sicuro non è una cosa di destra raccontare la tragedia di giuliani, dalmati, istriani, colpevoli non di essere fascisti, ma di essere italiani. Oltretutto «Magazzino 18», lo spettacolo di Cristicchi, si apre con l’incendio dell’hotel Balkan, con la persecuzione degli slavi voluta da Mussolini, con i crimini di guerra commessi dalle truppe d’occupazione italiane e tedesche. E di rado ho visto a teatro una pièce più radicalmente antifascista di «Li romani in Russia», durissima condanna della guerra d’aggressione voluta dal Duce.
Se poi la sinistra — in un tempo dominato da una tecnodestra che nega il cambio climatico, abolisce le tasse ai ricchi, simpatizza per i peggiori criminali che minacciano il ricorso alla bomba atomica, fa coincidere il potere politico con quello economico e di controllo digitale, vagheggia di portare su Marte e rendere immortale un’élite di superuomini — intende relegare nel campo avverso un artista solo perché è contrario alla gestazione per altri o ha parlato delle foibe, è affar suo.
Forse sarebbe il tempo di capire una cosa. Le categorie novecentesche di destra e sinistra già faticano a definire la politica di oggi. Figurarsi se possono definire l’arte. Agli artisti, con parziali eccezioni come i cantautori degli anni 70 — non tutti —, della politica non importa molto. Agli artisti importa la loro arte.
Se quella di Brunori e di Cristicchi intercetta i nostri sentimenti, le nostre paure, la nostra commozione, allora si può dire di loro quello che si dice delle grandi storie: «De te fabula narratur»; la storia parla di te.
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