Integrato ma non troppo. Al mercato unico europeo manca uno scatto di reni in grado di semplificare il quadro normativo ed eliminare lacci e lacciuoli. Così da creare opportunità per le aziende e rimettere in moto la crescita. Al contrario, finora l’Ue s’è trovata a fare i conti con limitazioni auto-imposte, frenando gli scambi e gli affari tra i 27 Paesi membri proprio mentre si apriva, invece, al commercio globale più di qualsiasi altro partner. In buona sintesi, un registro che è il contrario di ciò che dovrebbe essere un mercato integrato.
Tanto che, in un recente intervento sul Financial Times, l’ex premier ed ex governatore della Bce Mario Draghi ha preso di mira «barriere commerciali interne e ostacoli regolamentari che danneggiano l’economia Ue più dei dazi che potrebbe imporre l’America».
L’incompletezza di un’Unione stancamente frammentata è il più classico dei dilemmi che tengono in ostaggio l’Europa, che si tratti dei servizi finanziari o di telecomunicazioni, di farmaci o di riconoscimento dei titoli di studio. Ed è la ragione per cui, soprattutto ora che l’offensiva commerciale di Donald Trump «proietta incertezza sulla crescita di un’Europa che dipende dalla domanda estera», all’Ue «serve un cambiamento radicale», è tornato a dare la scossa a Bruxelles Draghi, che un dettagliatissimo report sul rilancio della competitività industriale Ue a Ursula von der Leyen lo ha consegnato più di cinque mesi fa. Anche un altro ex premier italiano, Enrico Letta, ha affidato a una lunga relazione una lista di interventi da realizzare per esprimere il potenziale di un mercato unico incompiuto.
LA DIAGNOSI
Uno per tutti, tanto simbolico quanto significativo? La creazione di un 28esimo regime giuridico che non si sostituisca, ma affianchi i 27 codici del commercio nazionali, a cui potrebbero rivolgersi le aziende che operano su scala continentale. La proposta è piaciuta a von der Leyen, che l’ha messa nero su bianco nel programma (ancora sulla carta) per il mandato da poco iniziato. Insomma, diagnosi e prognosi non mancano ma – concordano spesso le rappresentanze delle categorie produttive a Bruxelles – a latitare è l’azione.
A proposito di rapporti, l’Outlook economico regionale per l’Europa redatto a ottobre dal Fondo monetario internazionale – ente non certo organico alle liturgie brussellesi – è ancora più esplicito: «Analisi recenti dell’Fmi rilevano che nel 2020 scambiare beni all’interno dell’Ue si accompagnava a una considerevole tariffa del 44% in media per il settore manifatturiero», ben più che per fare affari tra i vari Stati degli Usa, dove il valore si attesta attorno al 15%.
E se si passa a considerare il settore più dinamico dell’economia, cioè i servizi (compresi quelli digitali, comparto che rappresenta circa il 70% del Pil Ue), il livello di restrizioni si spinge «fino al 110%», in virtù di un’infinità di vincoli nazionali. Le imprese che riescono a entrare nei mercati di altri Paesi Ue, prosegue l’Fmi, sono «tipicamente più grandi rispetto a quelle che operano tra uno Stato e l’altro negli Usa». Cosa significa tutto ciò? Che l’Europa deve «rimuovere le barriere all’ingresso e alleggerire gli oneri amministrativi», certo.
Ma anche puntare a un maggior coordinamento degli aiuti di Stato, soprattutto se alimentano produzioni con una forte propensione all’export intra-Ue, e infine «avanzare verso l’unione dei mercati dei capitali e bancaria. Sviluppare un mercato unico per i servizi finanziari», idealmente con una supervisione centralizzata, «è particolarmente importante per aumentare il finanziamento di investimenti rischiosi, ma potenzialmente ad alta produttività».
I SETTORI CHIAVE
L’Fmi suggerisce poi “aprire” ai concorrenti stranieri «settori chiave come i servizi finanziari, le telecomunicazioni e l’elettricità», ambiti strategici in cui il limite della frammentazione impedisce la formazione di campioni industriali europei in grado di sfruttare le economie di scala. I gruppi delle tlc – è un esempio spesso citato da Letta – negli Usa hanno in media 107 milioni di clienti, in Cina 476, mentre in Europa appena 5. Senza dimenticare il capitale umano. 5400 professioni nell’Ue sono regolamentate (il 22% della forza lavoro), ma in alcuni casi ciò complica le opportunità transfrontaliere (solo 9 Paesi su 27 chiedono, ad esempio, un tesserino alle guide turistiche): cambiare passo significherebbe un riconoscimento automatico delle qualifiche tra un Paese e l’altro, concordano i dossier sui tavoli Ue. E, magari, sviluppare un titolo di studio che nasce già come europeo, facilitando le collaborazioni tra atenei e la mobilità di studenti e (futuri) lavoratori.
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