Mario Draghi si è unito agli undici personaggi, ancora in cerca d’autore, che Macron ha convocato nella capitale francese. E se anche il vertice non ha prodotto risultati concreti, è però il tentativo di costruire una coalizione di volenterosi con chi ci starà e ha capito che non c’è tempo da perdere per non essere condannati all’irrilevanza
Quante cose racconta una fotografia, a saperla ascoltare. Quella del vertice di Parigi ha un punctum, avrebbe detto Roland Barthes, spostato sulla sinistra. C’è Giorgia Meloni, la presente riluttante, che non fa nulla per nascondere il suo disappunto. Guarda l’obiettivo di malavoglia, il volto corrucciato per esprimere malumore e sul quale è come si disegnasse una domanda: “Che ci faccio qui?”
Ha appena finito di contestare apertamente la formula dell’incontro, premesso che non si deve interpretare come un meeting contro Donald Trump ed è forse a lui che pensa, a lui che guarderà quell’immagine e sarà fiero della sua contrarietà espressa con una sorta di smorfia.
Accanto a lei, quasi a fungere da contrappeso emotivo, il volto abbronzato, sorridente ed evidentemente soddisfatto di Antonio Costa, il presidente del Consiglio Ue, l’organismo che rappresenta tutti gli stati dell’Unione, un socialista contento di esserci, di dare una risposta, per abborracciata che sia, all’arroganza americana verso il Vecchio Continente.
Di profilo posa Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione europea, pare perplessa, deve tenere conto degli equilibrismi dell’organismo che guida in nome di 27 paesi e molti non ci sono, ma non mancherà più tardi di sfoderare l’ottimismo della volontà circa l’impegno dell’Europa sulla propria sicurezza e sulla pace che Kiev si merita, basata sulla forza.
Alla sinistra di Giorgia Meloni un pensoso Dick Schoff, premier d’Olanda e Mette Frederiksen, pari grado di Danimarca, che porta la responsabilità di rappresentare i paesi baltici, i più preoccupati e minacciati dall’espansionismo imperialista russo, un peso testimoniato dalla mano sinistra che regge il mento.
Scholz e Macron
Con l’eccezione di Meloni, ai margini probabilmente perché l’ultima arrivata al desco in ordine temporale e anche questo è un segno delle sue titubanze, al centro si stagliano i pesi massimi relativi.
Olaf Scholz, il tedesco che se ne andrà in anticipo per via di un appuntamento elettorale, siamo vicini al voto che verosimilmente segnerà la sua uscita dalla cancelleria di Berlino, ma pur sempre la Germania asse portante. Emmanuel Macron, l’artefice del summit, ai minimi di popolarità dopo le tante speranze suscitate al suo apparire all’Eliseo nel 2017, un’epoca geologica fa in termini politici, ma erede dell’orgoglio francese, paese che non ha mai mancato, quando lo ha ritenuto necessario, di marcare una distanza con Washington e dunque il più indicato, per legittimità storica, a inventarsi una reazione rapida all’umiliazione subita dalla coppia Trump-Putin.
Il padrone di casa ha lo sguardo serio e delle situazioni preoccupanti, se si tramuteranno anche in grandi occasioni è ancora tutto da dimostrare. Nelle orecchie gli deve risuonare la profezia di Charles de Gaulle: «Un giorno gli americani se ne andranno». Intendendo: la smetteranno di fare da ombrello militare all’Europa. Quel giorno sembra arrivato e bisogna attrezzarsi. Lo spagnolo Pedro Sànchez è il più rilassato, l’Ucraina è geograficamente lontana dalla sua terra ed ha una linea chiara, una pace giusta, possibilmente, e per ora niente truppe sul terreno.
Frattura atlantica
Accanto a lui la sorpresa Keir Starmer premier della Gran Bretagna. È la novità più significativa. Dopo la Brexit e i guasti che ha provocato il Regno Unito lascia il proprio poco splendido isolamento e torna nel continente portando metaforicamente in dote le 225 testate nucleari da sommare alle 290 francesi. Se non è l’ora più buia, è un’ora comunque grave.
La frattura atlantica mina anche la “relazione speciale” (copyright Winston Churchill) tra Londra e Washington, costringe Starmer a guardare per le alleanze il canale della Manica e non l’assai più vasto oceano Atlantico. È la geografia che spesso segna i destini più della storia, della politica e della lingua.
Obbligatoria la presenza di Donald Tusk, primo ministro della Polonia, che ha la presidenza di turno del Consiglio Ue, da sempre sotto la minaccia del Cremlino, e doppiamente importante perché non c’è Europa senza Varsavia. Infine, a porre un significativo cappello che eccede le dimensioni del Continente, Mark Rutte, segretario generale della Nato.
Mario Draghi
Undici personaggi ancora in cerca d’autore. A cui se ne potrebbe aggiungere un dodicesimo che non era a Parigi ma che martedì 18 febbraio a Bruxelles, all’Europarlamento, ha riecheggiato de Gaulle. È Mario Draghi: «Se le recenti dichiarazioni (di Trump ndr) delineano il nostro futuro, possiamo aspettarci di essere lasciati in gran parte soli a garantire la sicurezza in Ucraina e nella stessa Europa». Quindi l’invito ad agire in fretta «come se fossimo uno stato solo».
Vasto programma se la solita Ungheria sovranista di Vikton Orbán ha bocciato senza mezzi termini la riunione francese («i partecipanti bloccano gli sforzi di pace in Ucraina») e se Giorgia Meloni è refrattaria a interrompere la corrispondenza d’amorosi senso con Donald Trump, nonostante si stia rivelando nocivo per gli interessi dell’Italia, economici e non solo.
Una previsione. Immaginare un’Europa che abbia una voce sola e che decida tutta insieme un destino comune è utopia. Parigi, se non ha prodotto risultati concreti, è però il tentativo di costruire una coalizione di volenterosi con chi ci starà e ha capito che non c’è tempo da perdere per non essere condannati all’irrilevanza.
© Riproduzione riservata
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link