Retribuzioni italiane sotto la media europea, Orazi di Univpm: «Bassi salari responsabili della fuga dei cervelli»


In Italia gli stipendi sono inferiori alla media dei Paesi europei. Il dato emerge dall’ultima statistica dell’Eurostat. Nel 2023, in base ai dati che emergono dal grafico Eurostat, la retribuzione netta di una persona single senza figli è stata di 27,5 mila PPS (ovvero Purchasing Power Standard, moneta artificiale che permette di confrontare i redditi dei diversi Paesi), mentre quella italiana si è fermata a poco più di 24 mila PPS.
In testa alla classifica ci sono la Svizzera con uno stipendio medio netto di più di 47 mila PPS, fanalino di coda la Slovacchia con 14 mila PPS. L’Italia risulta tra i grandi Paesi europei come quello in cui si guadagna di meno.

Il costo della vita, la produttività o le politiche governative influenzano il livello salariale così come le capacità di tutela, spiega il professor Francesco Orazi, docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università Politecnica delle Marche. «Se prendiamo ad esame un lasso temporale di circa tre decenni – dice -, l’Italia ha visto ampliarsi in maniera sostanziale la forbice delle differenze con Paesi come Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna».

La produttività da sola non è sufficiente a spiegare le differenziali salariali tra i Paesi Ocse, secondo l’esperto le basse retribuzioni in Italia dipendono anche dal processo di «precarizzazione del mondo del lavoro» una strategia difensiva, spiega, adottata per la competività ma che «si è ‘scaricata’» sulle spalle dei lavoratori.

Nel nostro Paese «ci sono all’incirca 3 milioni di woorking poor» ovvero di persone che pur lavorando sono in condizione di povertà a causa di «retribuzioni molto basse che non coprono il livello di sussistenza. Accanto a questi lavoratori poveri ci sono anche i giovani che fanno il loro primo ingresso nel modo del lavoro: certo, c’è bisogno di formare questi nuovi lavoratori, ma spesso questa situazione porta allo scoraggiamento dei giovani che quindi preferiscono non lavorare».

Orazi evidenzia che «in un regime di basse retribuzioni» i consumi interni si contraggono e «la contabilità macroeconomica del Paese non va bene. Nell’ultimo quarto di secolo i consumi sono stati segnati da diverse crisi, ma anche da una dinamica salariale non adeguata agli aumenti inflattivi. Per mantenere dinamica salariale – dice – occorre aumentare la produttività e servono politiche governative per i redditi, che in Italia è difficile adottare» a causa «di un debito pubblico molto gravoso.

Bisognerebbe trovare dei meccanismi perequativi» ovvero in grado di aumentare i redditi a fronte della crescita inflattiva, tra gli esempi l’esperto cita la ‘scala mobile’ ovvero lo strumento adeguava in maniera automatica i salari, per contrastare la diminuzione del potere d’acquisto legata all’aumento del costo della vita. «Oggi un meccanismo così automatico è complicato da attuare – spiega – ma bisogna trovare meccanismi regolativi dei salari che possano offrire maggiori garanzie. I settori che patiscono di meno sono quelli dove c’è una contrattazione collettiva nazionale» che offre maggiori garanzie e tutele ai lavoratori, anche in termini reddituali.

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Tra i settori in cui i redditi sono più bassi l’esperto cita le professioni nell’ambito del turismo, a causa della stagionalità delle attività. Una soluzione potrebbe essere quella di ridurre l’orario di lavoro a parità salariale.

Il salario minimo europeo potrebbe rappresentare una soluzione per ridurre il divario tra i Paesi? «Se i redditi minimi sociali li consideriamo come strumenti momentanei che accompagnano un percorso di ricerca del lavoro, questo tipo di sovvenzione momentanea rappresenta un ausilio indispensabile per il ciclo economico che ha visto grandi spiazzamenti. Servono strumenti per accompagnare i lavoratori nelle fasi di disoccupazione per riqualificarsi. Un atto necessario e utile, oltre che etico».

Il tema salariale si intreccia con la fuga dei cervelli e con la carenza di manodopera qualificata. Secondo il professor Orazi un aumento delle retribuzioni potrebbe spingere i lavoratori verso quei settori dove c’è maggiore carenza di personale e contrastare la fuga dei nostri migliori talenti? «La fuga dei cervelli è un fenomeno che ormai è in atto da due decenni che che negli ultimi 7-10 anni circa ha visto un’acutizzazione più evidente, tanto che la dinamica di ‘fuggire’ all’estero comincia ad essere un elemento che incide sulla struttura della popolazione». A migrare, spiega Orazi, sono soprattutto i migliori talenti, ovvero i laureati più preparati e «con le maggiori chance per formazione e creatività. Questo fenomeno deve farci riflettere» conclude.





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