Ursula von der Leyen è volata ieri nella capitale di un Paese contro cui la Commissione Ue avrebbe già dovuto agitare il cartellino rosso. In rosso profondo sono infatti i conti della Francia di Emmanuel Macron, che pure si è autonominato leader dell’Europa “democratica e resistente” contro l’America di Donald Trump.
Il governo di François Bayrou – comunque “presieduto” da Macron – ha sfangato la manovra 2025 soltanto una decina di giorni fa, ampiamente fuori tempo massimo sulle scadenze Ue di fine anno. Ha rischiato di cadere come già Michel Barnier (un ex commissario Ue) a fine anno sullo stesso nodo: i tagli alle pensioni, infine approvati in via parziale solo con il ricorso al famigerato articolo 49.2 della costituzione semipresidenzialista francese, che consente al governo di aggirare in emergenza la democrazia parlamentare.
Pur con una manovra da 53 miliardi fra tagli di spesa e maggiori tasse (Barnier ne avrebbe voluti almeno 60) Parigi ha presentato un budget in cui il deficit punta fine anno a un calo dal 6,1% al 5,4% (e l’obiettivo 2026 non è migliore). La gestione finanziaria corrente francese – quando Macron entra nell’ottavo anno di presidenza – resta quindi in deficit per ben più del 3% previsto dai parametri Ue. Lo stesso debito francese (previsto al 112%) è nettamente fuori linea, mentre il Pil della seconda economia europea è atteso a un modesto 0,6% di crescita.
Nessun Valdis Dombrovskis, tuttavia, ha aperto bocca da Bruxelles contro Parigi come – inesorabilmente – contro i conti dell’Italia. Sembra non aver nulla da dire neppure Paolo Gentiloni, negli ultimi cinque anni commissario Ue agli Affari economici.
Nessun cancelliere tedesco – in duetto con il presidente francese di turno – si è ingerito stavolta nella politica interna di un altro Paese Ue, appoggiandosi sul presidente Usa di turno come nel 2011 contro l’Italia di Silvio Berlusconi. Nessun “fate presto” è risuonato per insediare a Parigi un commissario di “Europa e mercati” come lo fu Mario Monti a Roma.
Il presidente francese di turno – screditato anzitutto presso gli elettori del suo Paese – stavolta vuole invece indire una crociata “europea” contro Washington, con un ennesimo abuso del marchio Ue. I suoi inviti per l’improvvisato e bizzarro vertice informale di Parigi, ieri, hanno anzitutto avuto l’effetto di spaccare e delegittimare l’Unione. Alla presidente della Commissione è stato riservato un ruolo gregario, così ad Antonio Costa, fino a prova contraria presidente del vero Consiglio Ue, l’unico formalmente autorizzato a convocare vertici, con la partecipazione obbligatoria di tutti i Ventisette.
Al tavolo di Macron (a cui non era seduto neppure il premier francese legittimato dal suo parlamento) sono stati invece chiamati tutti e quasi solo i premier socialdemocratici sopravvissuti: dal cancelliere uscente Olaf Scholz (che da lunedì prossimo prevedibilmente non lo sarà più, per volontà della democrazia elettorale tedesca) alla premier danese-groenlandese Mette Frederiksen (preferita ai premier di centrodestra di Finlandia e Svezia), allo spagnolo Pedro Sánchez, in pugno ai golpisti catalani e braccato dalla magistratura per sospetti fatti corruttivi.
Con loro il laburista britannico Keir Starmer, già in crisi profonda otto mesi dopo il voto, tanto da ri-bussare alla porta della Ue, presa a calci da Brexit e oggi trattata come un albergo a ore. Lo stesso premier polacco Donald Tusk è oggi assai più il vecchio eurocrate della Ue merkeliana che un capo di governo Ppe.
L’Olanda, intanto, ha avuto ieri al tavolo ben due dignitari: anzitutto il premier tecnico Dick Schoof, ex capo dell’intelligence nazionale (interlocutore della Cia dell’amministrazione Biden) alla guida di un esecutivo imperniato sul Partito della libertà, di estrema destra. L’ultimo voto olandese è stato largamente vinto da Geert Wilders, che ha battuto anche il premier liberale uscente Mark Rutte.
Ieri però a Parigi Wilders non c’era: come arancione aggiunto si è invece presentato Rutte, nelle sue nuove vesti di segretario generale della Nato, indicato nel luglio scorso dall’amministrazione Biden. Non è stato neppure invitato il nuovo premier del Belgio, Paese fondatore della Ue e ospite storico della sua sede istituzionale, ma Bart De Wever (nazionalista fiammingo, che all’europarlamento è rappresentato dall’Ecr di Giorgia Meloni), evidentemente un impresentabile secondo i criteri “democratici ed europeisti” di Macron.
L’unica “non allineata” ammessa nel bunker parigino di ieri era la premier italiana: che ha comunque voluto assolvere a un impegno giudicato istituzionale, per il suo Paese e per la Ue. Ma non ha certo nascosto, Meloni, i molti dubbi su un’iniziativa che è parsa a molti un tentativo di “golpe difensivo” di Macron e di altri leader Ue gravemente indeboliti. E sostanzialmente preoccupati di difendere brandelli di residuo potere personale o uscite di scena minimamente dignitose.
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