“Ciò che oggi sarebbe necessario è un umanesimo militante, che si saturi della convinzione che il principio della libertà, della tolleranza e del dubbio non deve lasciarci sfruttare e sorpassare da un fanatismo che è senza vergogna e senza dubbi. Se l’umanesimo europeo è diventato incapace di una gagliarda rinascita delle sue idee; se non è più in grado di rendere la propria anima consapevole di sé stessa in una pugnace alacrità di vita, andrà in rovina e ci sarà una Europa il cui nome non sarà più che un’espressione storica e da cui sarebbe meglio rifugiarsi nella neutralità fuori dal tempo” (Thomas Mann, Achtung Europa, 1938).
Così scriveva Thomas Mann agli europei alla vigilia della deflagrazione della Seconda guerra mondiale mentre era andata in scena la vergogna degli accordi di Monaco fra Neville Chamberlain, Eduard Daladier, Adolf Hitler e Benito Mussolini che – in assenza dei rappresentanti della Cecoslovacchia – aprirono una strada su cui Francia e Regno Unito erano convinti di aver ottenuto una pace duratura accontentando le mire espansionistiche del Terzo Reich nei territori cecoslovacchi di lingua tedesca che invece dettero vita a una guerra di conquista nazifascista su tutto il continente europeo.
Gli annunci di Donald Trump, James David Vance e Keith Kellogg sull’ipotesi di un negoziato con la Russia di Vladimir Putin – come tema al centro della Conferenza sulla sicurezza al Marketplace di Monaco e il preludio del futuro incontro Donald Trump-Vladimir Putin avvenuto a Riad fra lo statunitense Marco Rubio e il russo Sergej Lavrov in assenza dei rappresentanti dell’Ucraina e dell’Unione europea – hanno richiamato inevitabilmente alla memoria gli accordi di Monaco del 1938.
L’ipotesi di una concessione unilaterale di tutti i territori russofoni del Donec’k, di Zaporizzja e di Cherson alla Federazione Russa oltre che il definitivo riconoscimento dell’occupazione della Crimea e di Luhans’k ricorda infatti il cedimento di Francia e Regno Unito all’espansionismo nazista sapendo che Vladimir Putin esigerà la smilitarizzazione e la neutralità dell’Ucraina insieme all’organizzazione di incerte elezioni presidenziali e legislative in un territorio devastato dalla guerra di conquista russa.
L’ipotesi di una concessione unilaterale di tutti i territori russofoni del Donec’k, di Zaporizzja e di Cherson alla Federazione Russa ricorda il cedimento di Francia e Regno Unito all’espansionismo nazista
Le litanie lamentose dei leader europei – che hanno sostenuto finanziariamente e militarmente in questi tre anni l’Ucraina ben più degli Stati Uniti ma che non sono stati capaci di immaginare un futuro di pace e di sicurezza per garantirne l’indipendenza e l’inviolabilità contemporaneamente all’indipendenza e all’inviolabilità dei Paesi vicini europei confinanti con la Russia – non hanno prodotto alcun risultato concreto. Ciò nonostante, l’illusione di chi pensava che il gruppo variegato di capi di governo volenterosi, invitati sorprendentemente da Emmanuel Macron all’Eliseo il 17 febbraio, avrebbe aperto la strada a un embrione di difesa comune europea è evaporata come neve al sole.
Il miracolo del risveglio intergovernativo europeo, al di fuori delle pastoie decisionali dell’Unione europea, che era stato persino sperato da Antonio Costa liberatosi per l’occasione dal cappello ingombrante di presidente del Consiglio europeo, non è avvenuto per le varie posizioni prese dai volenterosi raccolti a Parigi da Emmanuel Macron.
Innanzitutto si sono accapigliati sulla proposta dell’extra comunitario Keir Starmer di inviare “consistenti eserciti nazionali” in Ucraina, quando sarebbe stato necessario garantire militarmente l’eventuale accordo di pace fra Stati Uniti e Russia, con una sola apparente generosità che i giornali britannici hanno ipotizzato tra i 25 e i 30 mila uomini di cui 10 mila francesi e 10 mila britannici.
Hanno rinnovato lo scontro fra “frugali” e “spendaccioni” sullo scorporo delle spese militari dal nuovo e più rigido Patto di Stabilità, sotterrando ancora una volta l’ipotesi di eurobond e debito europeo per finanziare in comune l’aumento degli investimenti in armi e in tecnologie belliche, lasciando a bocca asciutta Donald Trump e il fido Mark Rutte che pretendevano dagli europei un livello di spesa militare mediamente superiore a quello statunitense.
Inoltre, hanno manifestato ostentatamente la protezione di interessi nazionali fra chi vuole mantenere la dipendenza dall’industria d’oltre Atlantico e chi vorrebbe gettare le basi di un’autonomia strategica europea.
Da parte sua, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen non ha aperto alcuno spiraglio all’ipotesi di una difesa comune proponendo inutilmente a Monaco di usare la escape clause nazionale dell’articolo 26 del Patto di stabilità, per aiutare i bilanci degli Stati senza ipotizzare acquisti comuni, integrazioni o standardizzazione delle produzioni con buona pace di una progressiva difesa comune.
Al di là dei contrasti confermati nell’inconcludente vertice di Parigi, nel dibattito sulla futura difesa europea permangono irrisolti i pluridecennali difetti congeniti di cui si discusse già al tempo della Comunità europea di Difesa (Ced) nel 1952-1954, che allora non furono superati e che ancora oggi non sono affrontati dai governi, dalla Commissione europea e dalle forze politiche per l’ostilità a cedere la seconda parte della sovranità nazionale dopo quella monetaria qui riassunti in sei quesiti.
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Si tratta di fondare un esercito unico nonostante le differenze linguistiche con una organizzazione sovranazionale e una perdita di autonomia o di mantenere gli eserciti nazionali con l’eccezione di limitate strutture comuni?
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Gli uomini e le donne chiamati a svolgere un servizio militare avranno una educazione politica-militare europea o nazionale qualunque sia la scelta fra un unico esercito o più eserciti nazionali?
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Il bilancio militare sarà unico per quanto riguarda le spese e sarà finanziato da contributi nazionali o da risorse proprie oppure sarà la somma dei bilanci nazionali fatta eccezione per la standardizzazione europea degli acquisti e delle produzioni?
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Gli Stati membri conserveranno il potere di constatare le aggressioni ad uno degli Stati membri, di ordinare la mobilitazione, di dichiarare la guerra o di fare la pace oppure sarà costituita preventivamente o parallelamente una autorità politica sovranazionale agli ordini della quale la forza armata europea o le forze armate nazionali dovranno rispondere?
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La creazione di uno strumento militare comune per raggiungere gli obiettivi di carattere umanitario e di soccorso, di mantenimento della pace e di gestione delle crisi comprese quelle di ristabilimento della pace, di ispezione sul rispetto dei trattati internazionali e di lotta al terrorismo richiederà maggiori spese con l’eccezione degli investimenti industriali in nuove tecnologie o realizzerà un’efficace interoperabilità fra le forze armate e fra i servizi di intelligence con minori spese?
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La difesa comune e il potere politico europeo costituiranno due problemi separati di cui il primo potrebbe precedere il secondo per l’urgenza della situazione internazionale o saranno affrontati e risolti come un solo problema come la logica e la democrazia imporrebbero?
Uscendo dal dibattito ora contingente ma tuttavia pluridecennale sulla difesa europea come strumento a sostegno della libertà e della sicurezza, torna l’idea iniziale di Thomas Mann di un umanesimo militante, perché la soluzione dei sei quesiti qui sopra riassunti non può essere racchiusa in un appello a un gruppo di governi, per quanto volenterosi, ma nella mobilitazione delle opinioni pubbliche, in particolare delle giovani generazioni, per riscoprire insieme il valore della solidarietà e della giustizia.
La risposta europea al programma di Donald Trump “Make America Great Again” non può essere lo slogan uguale e parallelo “Make Europe Great Again” sostituendo al nazionalismo degli Stati un improbabile e pericoloso nazionalismo europeo con l’idea di una patria europea sovrana destinata ad aumentare il caos e la conflittualità internazionale.
La strada da percorrere sembra essere piuttosto quella di una crescente autonomia strategica europea nella ricerca, nello sviluppo delle nuove tecnologie a partire dalle energie rinnovabili e alternative e dall’infosfera, nella convergenza sociale e ambientale come obiettivo per garantire la competitività, nella cooperazione internazionale con i Paesi esportatori di materie prime e mano d’opera, nella formazione durante tutto il corso della vita e nella solidarietà intergenerazionale sapendo che tutto ciò richiede un sostanzioso bilancio pluriennale finanziato da risorse proprie e da debito comune per investire in beni pubblici europei e non in un insieme di progetti nazionali come è avvenuto con il Ngeu.
Dando sostanza a un progetto sostenibile di governance internazionale e di sovranità condivisa – che si ispiri all’Agenda 2030 – la risposta europea al sovranismo di Donald Trump e all’imperialismo di Xi Jinping deve riscoprire e rilanciare il valore politico e culturale del Manifesto di Ventotene nella sua dimensione internazionale di lotta alle sovranità assolute.
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