in 15 anni da 260 a 105




Baracche di un insediamento formale – Federico Recchia

Da 250 insediamenti autorizzati a 105. Da 40mila persone a 10.455. Un risultato impensabile 25 anni fa, ma che sta trasformando in realtà il superamento dei “campi rom”, una pratica amministrativa fallimentare che ha prodotto solo emarginazione, degrado e gravi violazioni dei diritti fondamentali. E ha alimentato intolleranza e strumentalizzazioni politiche. Un appproccio fortunatamente abbandonato, a Nord come al Sud, visto che al momento sono otto le città in Piemonte, Lombardia, Veneto, Lazio, Campania e Calabria che hanno programmato entro uno o due anni lo “svuotamento” di altri dodici campi rom. Cinque solo a Roma, gli ultimi dei 17 che esistevano solo 15 anni fa. Percorsi complessi che si concludono con l’ingresso delle famiglie rom e sinte in alloggi di edilizia residenziale pubblica o in affitto.

È la buona notizia che arriva dall’Associazione 21 luglio, all’incontro organizzato in Campidoglio Roma Capitale per fare il punto sulle politiche di integrazione di rom e sinti. E presentare il libro A second life, edito dalla Fondazione Migrantes, in cui Maria Ilaria De Bonis, giornalista di Popoli e Missione, ha raccolto le storie di sei donne rom uscite con le loro famiglie dai campi per cominciare una vita normale in una casa vera.

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All’incontro hanno partecipato anche il direttore di Migrantes don Pierpaolo Felicolo, l’assessora alle politiche sociali di Roma Capitale, Barbara Funari e il delegato dell’UNAR Alessandro Pistecchia. Con loro anche alcuni rom protagonisti di storie di emancipazione e integrazione, risultato del superamento dei campi. Perché per chiudere un campo rom bastano ruspe e polizia, che spostano il problema e lasciano le famiglie per strada. Pratica deleteria ma frequente fino a pochi anni fa: Carlo Stasolla, presidente di Associazione 21 luglio, ricorda «i 250 sgomberi forzati in un anno di amministrazione a Roma di Gianni Alemanno e i 500 a Milano di Letizia Moratti».

Arcobaleno nel campo rom

Arcobaleno nel campo rom – Federico Recchia

Per superare un campo serve invece uno sforzo congiunto di amministrazioni locali e terzo settore, per percorsi di integrazione scolastica, lavorativa e abitativa. Un processo lungo e complesso, ma che produce risultati definitivi e rispettosi dei diritti delle persone. In Italia dunque si è aperta ormai da anni una stagione diversa. Era l’ottobre del 2000 quando il Centro europeo per i diritti dei rom definiva l’Italia Campland, il “Paese dei campi”. «Alla base dell’approccio del governo italiano nei confronti dei rom – si leggeva nel documento – c’è la convinzione che i rom siano “nomadi”. Alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90 10 delle 20 regioni italiane hanno adottato leggi volte alla “protezione delle culture nomadi” attraverso la costruzione di campi segregati». Un paradosso, che produceva ghetti su base etnica distanti molti chilometri dai servizi essenziali. Luoghi di emarginazione fisica in cui «molti rom sono stati effettivamente costretti a vivere le proiezioni romantiche e repressive degli italiani; le autorità italiane – scriveva il Centro europeo – affermano che il loro desiderio di vivere in appartamenti o case è inautentico e li relegano nei “campi nomadi”».

Vivere in un campo rom, con famiglie numerose stipate in container di 18 metri quadri, diventa uno stigma sociale: «Non scrivere nel mio curriculum che abito qui – si raccomandava una ragazza rom – se no non mi assumeranno mai». Nel 2016 in Italia – spiega l‘Associazione 21 luglio – erano 28 mila i rom in emergenza abitativa, di cui 18 mila in aree autorizzate, i campi comunali, più altri 10 mila in insediamenti informali. In meno di 10 anni sono scesi a 17.800, tra gli 11.300 degli insediamenti formali e i 6.500 degli accampamenti non autorizzati. Oggi in Italia dei 105 insediamenti autorizzati rimasti, 44 sono baraccopoli abitate da persone originarie dell’ex Jugoslavia o della Romania, caratterizzate da carenza di servizi essenziali e alloggi inadeguati. Altri 61 insediamenti sono macroaree abitate da sinti italiani, dotati di alloggi e servizi sufficienti. «Siamo in una fase di pieno superamento», sostiene Carlo Stasolla.

Dalla finestra di un container

Dalla finestra di un container – Federico Recchia

Esemplare del cambio di rotta nazionale è il caso di Roma Capitale. Abbandonata da anni la stagione degli sgomberi a colpi di ruspa, il Campidoglio ha imboccato con decisione quella più faticosa dell’integrazione. Dei 17 campi autorizzati presenti a Roma nel 2010 ne sono rimasti oggi solo 5 – Salviati, Candoni, Gordiani, Castel Romano, Salone – tutti interessati da progetti di superamento entro il 2026, grazie alla collaborazione tra amministrazione comunale ed enti del terso settore. Il campo di via di Salone, ad esempio, nel 2010 contava circa 1.000 presenze, calate a 364 a gennaio 2024, ulteriormente ridotte a 197 a gennaio di quest’anno. «Gli stanziamenti necessari per il superamento dei campi sono quasi esclusivamente fondi europei e del Pnrr», spiega l’assessora di Roma Capitale, Barbara Funari.

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Grazie al lavoro anche dell’Associazione 21 luglio, in tanti hanno trovato una casa vera. Come Almira Salkanovic, 28 anni, di origine montenegrina ma con cittadinanza italiana, sposata e con due bambine. Da tre anni ha lasciato il container n° 182 del campo di via di Salone. Ora vive in un appartamento gestito da un ente di volontariato. Grazie al lavoro del marito, presto prenderà una casa in affitto. «Nel container mancava spesso la luce – racconta – e una notte gelida, senza stufette elettriche, non ho dormito nel terrore che mia figlia di pochi mesi si ammalasse. È una bugia che i rom vogliono vivere tutti insieme nei campi». Luis Iornea, rumeno, due figli, ha avuto la settimana scorsa le chiavi della casa popolare. Attende gli allacci di luce e gas e non vede l’ora di lasciare Salone. Ma è contento «perché la casa è a La Rustica, vicino al campo, quindi resto nel quartiere in cui sono cresciuto». Per Milosh Jovanovic, di origini serbe, 27 anni sposato con Raffaella e due bambine, c’è ancora da aspettare. A Salone abita nel container n° 54 e fa il facilitatore volontario nel progetto di superamento. È stato il primo ad iscrivere le bambine all’asilo nido. Così anche altre famiglie l’hanno seguito: «Loro stanno bene, nel container non possono stare tutto il giorno, ma fuori rischiano di farsi male, il campo non è un posto sicuro per i bambini. E abbiamo più tempo per noi. Spero anch’io di uscire al più presto».





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