“Made in Italy? Il lusso spesso si regge su lavoro povero e sfruttamento, vogliono la nostra artigianalità ma ci trattano come il Terzo mondo”. Cos’è la “delocalizzazione in loco”


La crisi delle piccole medie imprese della filiera della pelletteria per i brand del lusso ha un impatto diretto sui lavoratori. Ce ne parla Luca Toscano, da anni in prima linea a fianco degli operai del comparto moda della zona di Firenze e Prato, oggi con il “Sindacato unione democrazia dignità” (Sudd cobas). Per i sindacati, la crisi che colpisce artigiani e terzisti è voluta dai brand del lusso, come affermano anche gli stessi piccoli imprenditori. Non sarebbero le dinamiche di mercato a generare la crisi, ma “un sistema che si basa sulla precarietà strutturale e sullo sfruttamento seguendo logiche del massimo ribasso per massimizzare i profitti”. La critica non è solo ideologica, ma parte dagli effetti che questo approccio genera sui territori culla dell’artigianato Made in Italy. Quelli che denuncia il Sudd cobas sono infatti gli effetti dello stesso meccanismo denunciato dai terzisti, una sorta di “delocalizzazione in loco”.

Cosa succede nelle filiere della moda?
Siamo di fronte a produzioni che non possono essere delocalizzate all’estero, perché c’è un forte interesse commerciale e di marketing nel mantenere il marchio Made in Italy. Tuttavia, ciò che è stato delocalizzato in passato nei paesi del terzo mondo viene oggi importato in Italia: condizioni di lavoro precarie, salari bassi e sfruttamento estremo.

Eppure ormai tutti i grandi brand del lusso proiettano un’immagine etica, sostenibile, rispettosa, sembrano aver compreso l’importanza della sostenibilità sociale anche nelle scelte d’acquisto dei consumatori
Apparentemente c’è questo interesse, ma la realtà è ben diversa. La produzione è quasi totalmente esternalizzata, affidata a fornitori e subfornitori a cui vengono imposte tariffe insostenibili. Parliamo di cifre che, per un subfornitore, che si aggirano dai 70 euro fino ai 25-30 euro per produrre una borsa venduta poi nei negozi a non meno di 1.000-1.500 euro. Anche nei casi migliori, le filiere si reggono su lavoro povero, con salari da 1.100 euro netti al mese per chi lavora sotto contratti artigiani che, in teoria, dovrebbero agevolare “i piccoli”. Ma in realtà i “piccoli” lavorano per i “grandi” e sono questi ultimi a guadagnarci dai salari bassi.

Quali sono le condizioni dei lavoratori e delle aziende artigiane?
Dove non ci sono condizioni estreme di sfruttamento, come turni di 12 ore per sei o sette giorni alla settimana, troviamo comunque contratti che offrono salari bassissimi. Le piccole aziende artigiane, spesso con meno di 15 dipendenti, applicano i contratti nazionali dell’artigianato, ma quei contratti sono pensati per tenere i costi il più basso possibile. Il risultato è che i lavoratori guadagnano meno dei teorici 9 euro lordi all’ora. Accanto al lavoro povero esiste un’intera fascia di super sfruttamento: lavoro nero, evasione fiscale, turni massacranti. E questo i brand lo sanno benissimo. Ma è improprio parlare di ‘crisi occupazionale’, dal momento che nel settore ci sono migliaia di lavoratori costretti a fare due lavori in uno, dal momento che coprono 12 ore al giorno, sei giorni su sette, venendo pagati come uno solo. Il sistema è matematico: con i prezzi imposti dai brand, l’evasione e lo sfruttamento diventano inevitabili, qualunque imprenditore onesto fatica a stare ai prezzi imposti e finisce per chiudere o fallire.

I grandi marchi sostengono di aver aumentato i controlli sulla filiera, anche per garantire il rispetto delle norme
Sì, i brand esercitano un controllo totale sulla filiera: hanno persone fisicamente presenti nelle fabbriche dei fornitori per seguire la produzione, controllano il rispetto degli standard, ma chiudono un occhio sulle condizioni di lavoro. In alcuni casi, come per Montblanc, abbiamo visto situazioni emblematiche: dopo anni di lavoro con un fornitore in cui si tollerava sfruttamento e lavoro nero, l’azienda ha tolto le commesse appena il fornitore ha iniziato a regolarizzare i lavoratori. La giustificazione ufficiale? Si erano accorti improvvisamente che in passato l’azienda aveva lavorato in maniera irregolare. La realtà è che avevano finalmente regolarizzato i lavoratori, così il costo di produzione di una borsa era aumentato. Il brand non era disposto a pagare quell’aumento dovuto al rispetto del contratto nazionale. I brand non spostano più la produzione all’estero, ma portano le commesse da un fornitore all’altro, a pochi chilometri di distanza, per trovare condizioni più precarie. Ad esempio, le borse che Montblanc faceva produrre a un fornitore regolarizzato a Campi Bisenzio sono state trasferite a un’azienda in cui sono riemerse le vecchie pratiche di sfruttamento: turni di 12 ore, lavoro nero e totale opacità nei contratti. A volte, le commesse vengono passate addirittura tramite messaggi su WhatsApp, senza alcun accordo formale

Cosa si potrebbe fare per cambiare la situazione?
Non possiamo continuare a tollerare l’ipocrisia dei brand. Non possono fingere di ‘scoprire’ lo sfruttamento solo quando intervengono i sindacati o la magistratura. E non possono risolvere il problema spostando le commesse da un fornitore all’altro. Serve un intervento sistemico, a partire da una “clausola sociale” che vincoli i brand a garantire condizioni di lavoro dignitose lungo tutta la filiera. Ad esempio, in settori come la logistica o i multiservizi, esistono clausole che obbligano i committenti a garantire continuità occupazionale in caso di cambio appalto, oltre a essere responsabili del rispetto dei contratti nazionali. Perché non si può fare lo stesso nella moda? I lavoratori della filiera dovrebbero avere il diritto di appellarsi direttamente al brand per chiedere il rispetto delle norme e dei contratti.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Il rispetto dei diritti aumenterebbe il costo del lavoro, in un momento in cui gli stessi artigiani subiscono i tagli dei budget per la produzione, giustificati dai brand come esito di una crisi del settore
Non c’è una vera crisi nel lusso. Questo settore continua a generare profitti astronomici. La vera crisi è indotta dall’alto, con l’unico obiettivo di comprimere ulteriormente i costi della filiera.

La retorica delle crisi insegna che questi momenti possono essere anche occasioni di cambiamento
Questa situazione, in cui anche i terzisti si rendono conto dell’insostenibilità della filiera, potrebbe davvero essere l’occasione di riportare legalità e dignità all’interno del settore. Se vogliamo affrontare questa crisi, dobbiamo ripartire da un orario di lavoro legale e da salari equi. Non si può continuare a permettere che il lusso italiano, tanto celebrato nel mondo, si regga sullo sfruttamento e sul lavoro povero.



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